C’è qualcosa di paradossale, quasi dissonante, nel sentire pronunciare insieme le parole “Premio Nobel per la Pace” e “María Corina Machado”.
Non perché la leader dell’opposizione venezuelana non abbia conosciuto la persecuzione, l’esilio interno, la minaccia del potere autoritario. Ma perché la sua figura, più che incarnare un’idea di pace universale, sembra oggi rappresentare un campo preciso di battaglia ideologica: quello della destra globalista, liberista, trumpiana, che si autoproclama paladina della libertà mentre alimenta una nuova forma di polarizzazione politica e culturale.
Il Nobel, un tempo simbolo supremo di riconciliazione, diventa così un campo di scontro, un’arma retorica. E la domanda, oggi più che mai urgente, è semplice: che senso ha assegnare un Premio Nobel per la Pace quando la pace non è più l’obiettivo, ma il pretesto?
María Corina Machado è, da decenni, il volto più noto dell’opposizione venezuelana al chavismo. Ingenua o meno, coraggiosa o calcolatrice, è riuscita a costruire la propria immagine pubblica come quella di una donna di ferro, intransigente, sofisticata e fieramente anti-socialista. È la leader che parla la lingua del mercato, della “libertà individuale”, del merito. Ma anche quella che, più di una volta, ha flertato con posizioni estreme, accogliendo con entusiasmo i complimenti di Donald Trump e gli elogi di Javier Milei, il presidente argentino simbolo del neoliberismo più radicale.
Il suo profilo divide. Da un lato, c’è chi la considera un baluardo della resistenza democratica venezuelana, un’icona di libertà contro l’autoritarismo di Nicolás Maduro. Dall’altro, c’è chi vede in lei una figura costruita su misura per le agende geopolitiche dell’Occidente, una “eroina esportabile” funzionale alla narrativa anti-chavista e all’espansione simbolica della nuova destra mondiale.
È una donna che parla con il linguaggio del capitalismo morale, che si presenta come martire della libertà ma si circonda di sostenitori che della libertà fanno spesso un concetto selettivo: libertà economica, sì; libertà sociale, diritti civili, inclusione, molto meno.
Machado non ha mai nascosto la propria ammirazione per Donald Trump. Anzi, ne ha fatto un modello politico, un riferimento costante. Dopo la vittoria del Nobel, ha ringraziato apertamente “il popolo venezuelano e Donald Trump”, riconoscendogli un ruolo decisivo nella “battaglia contro il socialismo”.
Una dedica che dice molto più di mille discorsi.
Perché non si tratta solo di gratitudine personale: è un atto politico, un posizionamento esplicito. È l’inserimento della sua figura all’interno del grande mosaico del trumpismo internazionale, quella rete di leader e movimenti — da Netanyahu a Orbán, da Milei a Bolsonaro — che condividono una visione del mondo costruita su valori di forza, religione, mercato e patriottismo.
La sua vicinanza all’ex presidente statunitense è stata più volte sostenuta anche da ambienti repubblicani: senatori e fondazioni conservatrici ne hanno promosso la candidatura al Nobel, parlando di lei come di “una donna che lotta per riportare la libertà in Venezuela”. Ma quale libertà? Quella dei mercati o quella delle persone? Quella dei capitali o quella dei cittadini?
La sua libertà, come quella di Trump e di Milei, è quella che celebra l’individuo-azienda, l’ordine, il controllo, la lotta al “socialismo” più che la costruzione di società giuste. È una libertà ideologica, non umanistica.
Ecco perché la sua vittoria, oggi, appare come una vittoria politica della destra globale più che un riconoscimento di pace universale.
A rendere ancora più evidente questa dimensione geopolitica è arrivata la lettera di Benjamin Netanyahu, in cui il premier israeliano elogiava apertamente Trump e Machado, parlando di “pacificatori coraggiosi che difendono la libertà contro la tirannia”.
Un messaggio tanto retorico quanto strategico. Israele e l’entourage trumpiano condividono oggi una visione del mondo fondata sulla divisione netta tra “democrazie del bene” e “regimi del male”. Una visione binaria che non lascia spazio al dialogo, alla diplomazia, al compromesso — tutti pilastri della pace.
Machado, nel suo discorso, ha ricambiato l’appoggio: ha citato Israele come “modello di resilienza e di fede nella libertà”.
Una frase che, detta nel contesto di una guerra ancora aperta a Gaza e di un’occupazione che miete vittime civili ogni giorno, suona come una provocazione o, peggio, come una cieca adesione a un’idea di “pace” che esclude l’altro.
Ed è qui che si apre la contraddizione più profonda.
Cosa rappresenta, oggi, il Premio Nobel per la Pace? Dovrebbe premiare chi costruisce ponti, chi disinnesca conflitti, chi promuove il dialogo. Invece, negli ultimi anni, sempre più spesso il premio sembra andare a figure che incarnano un modello politico, un messaggio di parte.
Nel caso di Machado, la pace sembra essere diventata un sinonimo di lotta ideologica. La sua narrazione è una guerra contro un “nemico”: il chavismo, il socialismo, la sinistra latinoamericana, la visione redistributiva dello Stato.
La pace, in questa logica, non nasce dall’incontro ma dalla vittoria. Non è riconciliazione, ma trionfo morale del “bene” sull’“altro”.
È una pace declinata in termini militanti, non diplomatici.
Eppure, nel Venezuela di oggi, le ferite restano aperte, la povertà cresce, le famiglie continuano a fuggire. L’assegnazione del Nobel a una figura come Machado, che non ha ancora costruito alcun processo reale di mediazione, rischia di essere letta come una legittimazione simbolica di una parte politica piuttosto che come un invito alla riconciliazione nazionale.
Non è la prima volta che accade. Henry Kissinger nel 1973, Yasser Arafat e Shimon Peres nel 1994, Barack Obama nel 2009: tutti premi che, in modi diversi, hanno fatto discutere. Ma quello di Machado rappresenta un salto di qualità nella politicizzazione del Nobel.
Perché non si tratta più di premiare un percorso diplomatico controverso — come nel caso di Obama o di Arafat — bensì di consacrare un’identità politica militante.
Il Nobel diventa un riconoscimento di appartenenza a un campo. Una “patente di moralità” concessa a chi incarna una certa idea di libertà: quella che oggi la destra globale esporta come bandiera, pur spesso calpestando i diritti fondamentali di interi popoli.
Così, mentre in Palestina si muore sotto le bombe, in Ucraina si continua a combattere e in America Latina la disuguaglianza cresce, il Comitato del Nobel sceglie di premiare una leader che divide il suo paese in due metà inconciliabili.
Che parla di “ricostruzione” ma su basi esclusivamente liberiste, senza mai riconoscere la necessità di un dialogo nazionale.
È questa la pace che vogliamo celebrare?
Dietro la retorica ufficiale, il Nobel a María Corina Machado è un messaggio chiaro alla regione e al mondo:
l’Occidente — o almeno una parte di esso — ha deciso chi sono i “buoni” e chi i “cattivi”.
Chi merita di essere difeso e chi può essere dimenticato.
Chi porta libertà e chi semina tirannia.
Ma questo schema, tanto rassicurante quanto pericoloso, riduce la complessità del mondo a una caricatura.
Nel Venezuela reale, il chavismo ha sì generato autoritarismo, ma anche programmi sociali che hanno migliorato la vita di milioni di persone negli anni 2000.
Allo stesso modo, l’opposizione guidata da Machado rappresenta le élite economiche, le classi urbane più agiate, non certo i quartieri popolari.
Eppure, il Nobel ne fa un simbolo assoluto, un’icona di purezza democratica.
Un cortocircuito che dice molto sullo stato dell’Occidente: un mondo che parla ancora di pace, ma la intende come vittoria morale dei propri modelli economici e politici.
La pace, nel linguaggio di oggi, non è più assenza di guerra. È appartenenza.
Non è dialogo, è schieramento.
E María Corina Machado, in questo senso, è la perfetta incarnazione del nostro tempo: una donna simbolo, ma anche una bandiera che sventola nel vento delle ideologie.
Il suo Nobel non unisce, divide.
Non pacifica, mobilita.
E in un mondo che ha più bisogno di ponti che di muri, è difficile non leggere questo premio come un segnale inquietante: la pace è diventata una parola svuotata, usata come paravento per lotte politiche e guerre culturali.
Forse il problema non è María Corina Machado in sé. Forse il problema è che il Nobel per la Pace, ormai, non riesce più a parlare un linguaggio universale.
Premia chi urla più forte, non chi costruisce lentamente.
Premia chi divide in nome della libertà, non chi riconcilia in nome della dignità.
E così, mentre il mondo osserva, resta una sensazione amara: quella di un’epoca che confonde la forza con la giustizia, il coraggio con la militanza, la pace con la vittoria.
María Corina Machado non è solo una vincitrice controversa. È il sintomo di un tempo in cui anche il più nobile dei premi è diventato campo di battaglia.
E il mondo, intanto, continua a cercare — invano — qualcuno che parli davvero di pace.