È successo tutto in pochi minuti lungo la SP 52, che collega Rosarno con Laureana, nel cuore della Piana di Gioia Tauro. L’agguato è stato eseguito su una strada provinciale, in pieno giorno. Hanno bloccato le macchine in transito. E nessuno, passato senza essere fermato, si è degnato di fare una telefonata al 112. Impunità totale per criminali senza scrupoli.
Un gruppo di cacciatori, partiti all’alba per una battuta, è stato bloccato da un commando di uomini incappucciati, armati con calibri pesanti: pistole e AK-47 (Kalašnikov). Pochi ordini secchi, minacce, poi la rapina: via i fucili, le munizioni, i cellulari.
L’intera operazione è durata meno di cinque minuti. Un’azione organizzata, chirurgica, senza improvvisazione.
Un messaggio chiaro: qui, a decidere, non è lo Stato.
Fucili rubati per una faida?
I fucili sottratti sono destinati al mercato nero? Verranno utilizzati nella faida tra clan della zona? Una mossa funzionale ad una eventuale guerra? Armi regolarmente registrate, pronte per essere modificate e impiegate negli scontri tra le famiglie che si contendono territorio, affari e rispetto (secondo la loro mentalità criminale. Per noi sono personaggi che non conoscono per niente il significato di questa parola. Sono squallidi guappi, di cartone).
Il furto delle armi è un chiaro segnale che la violenza potrebbe esplodere da un momento all’altro.
Un territorio infestato dalle cosche e da pezzi di merda
La memoria della faida di Laureana di Borrello – che tra gli anni ’80 e ’90 fece decine di morti – pesa ancora come un macigno su questo lembo di Calabria. Clan come Ferrentino, Chindamo, Albanese, Cutellè, Lamari, D’Agostino hanno lasciato cicatrici profonde.
Questi animali non sono scomparsi: hanno cambiato pelle, si sono infiltrati nei cantieri, nella politica, nell’economia, nei flussi di denaro pubblico.
E ogni tanto, quando serve ristabilire “le gerarchie”, il piombo torna a parlare.
Il furto dei fucili è l’ennesimo segnale di una guerra sotterranea che non si è mai davvero fermata.
Marcella Tassone, la bambina uccisa dalla schifosa mafia a Laureana di Borrello
23 febbraio 1989, Laureana di Borrello, Piana di Gioia Tauro.
Marcella aveva solo dieci anni. Era in macchina con il fratello Alfonso, vent’anni, militare in convalescenza, quando la violenza li ha travolti. Dietro un muretto, almeno due uomini attesero il loro passaggio e aprirono il fuoco con fucili calibro 12 caricati a pallettoni e una pistola 7.65. Sette colpi. Un’esecuzione. Un agguato spietato.
I corpi dei due fratelli furono trovati poche ore dopo, uno accanto all’altro, immersi nel sangue. Marcella Tassone è diventata il simbolo di una Calabria che piange i suoi figli innocenti e che non deve mai più accettare il silenzio.
La sua storia ricorda a tutti che la mafia non risparmia nessuno e che la memoria e l’impegno sono le uniche armi capaci di sfidarla davvero.
La paura dei cittadini
I cittadini sono stanchi, spaventati, sfiduciati. In molti parlano di “far west”, dove ognuno fa la sua legge e lo Stato arriva solo dopo, quando i colpi sono già esplosi e i corpi già a terra. È una ferita che lacera la Calabria più bella, quella che vorrebbe solo vivere, lavorare, crescere in pace. Ma la paura, quando diventa abitudine, uccide più dei proiettili.
Questo ennesimo episodio dimostra che la questione ‘ndrangheta non può più essere affrontata con interventi di facciata o retorica di circostanza. Serve un cambio di passo radicale, culturale e politico.
La ‘ndrangheta non si sconfigge solo con gli arresti: si sconfigge col lavoro, con la scuola, con la cultura, con la presenza costante dello Stato sul territorio.
Si sconfigge quando un giovane calabrese non deve più scegliere tra emigrare o piegarsi al potere criminale.
Finché questi presupposti mancheranno, la Calabria continuerà a vivere nel paradosso del “Far West”, dove la vita vale meno di un fucile rubato.
Il furto dei fucili ai cacciatori non è una semplice rapina: è un atto politico, criminale, mafioso. Un avvertimento che dice al territorio: “le armi le abbiamo noi, il controllo è nostro”. Ma c’è una Calabria che non si piega, che denuncia, che vuole cambiare.
Ed è a quella Calabria che bisogna dare voce, forza e protezione.
Perché se non si estirpa la ‘ndrangheta alla radice, resteremo sempre spettatori di un film già visto.






