Dopo l’articolo pubblicato lo scorso 12 ottobre 2025 “Calabria, assalto sulla strada per Laureana: cacciatori rapinati dei fucili per alimentare una faida?” – e l’intervista al politico di Fratelli d’Italia dal titolo “Solidarietà ai cacciatori e sicurezza in Calabria, l’intervista a Stefano Princi (Fratelli d’Italia): «Si enfatizza sulla ‘ndrangheta»” del 16 ottobre, WordNews.it prosegue la sua inchiesta con una testimonianza esclusiva.
A parlare è uno dei protagonisti diretti della rapina avvenuta intorno alle 5.50 del mattino del 12 ottobre, lungo la provinciale Rosarno–Laureana di Borrello, quando uomini armati e incappucciati hanno fermato e minacciato un gruppo di cacciatori.
L’interlocutore (per motivi di sicurezza resta anonimo) racconta minuto per minuto l’azione armata, la paura e la rabbia per un episodio che, in una regione già segnata da troppe ombre, riapre la questione della sicurezza e del potere criminale.

Partiamo dall’inizio.
«Era una giornata programmata, per trascorrere una mezza giornata di tranquillità, di serenità, di relazione. Perché oggi non si va più solo per cacciare, ma per stare insieme, per passare del tempo in compagnia, con i cani. E poi ormai si usano poco le armi, noi ci concentriamo sui cani, ad addestrarli, a prepararli per la stagione. Quei giorni erano dedicati a questo».
Dove stavate andando esattamente?
«Eravamo diretti in una località chiamata Prateria, nel comune di Serrata. Stavamo percorrendo la provinciale, avevamo fatto tappa al bar per un caffè. Ci siamo diretti sulla SP52».
Cosa è accaduto a quel punto?
«A metà percorso abbiamo visto una macchina bianca ferma a bordo strada. Sembrava in avaria. Stavo per fermarmi, per chiedere se avesse bisogno di qualcosa. Poi ho visto che l’uomo parlava al cellulare e guardava troppo nella nostra direzione. Mi sono allarmato. Ho deciso di non fermarmi più. Dopo circa duecento metri siamo stati raggiunti da una macchina grigia, un BMW».
Inizialmente cosa ha pensato?
«Pensavo che fossero due ragazzi che rientravano dalla discoteca, di domenica mattina. Ma subito dopo ho capito che non era così. Mi hanno affiancato, cercavano di sorpassare, ma dal lato opposto arrivava un’altra macchina, e per poco non facevamo un frontale. Io mi sono spostato tutto a destra, sono finito quasi fuori strada per evitare lo scontro. Poi loro si sono messi di traverso e mi hanno bloccato».
Che cosa è successo in quel momento?
«Quando mi hanno affiancato, ho visto il passeggero della BMW puntarmi una pistola. In quel momento ho pensato: “Mi vogliono uccidere”. Non sembrava un furto. Ho frenato per evitare il frontale, ma loro si sono messi di traverso e sono scesi in due. Entrambi incappucciati, con i guanti alle mani. Il passeggero aveva una pistola calibro 9, l’altro un Kalashnikov. Un’arma da guerra, con una potenza di fuoco enorme. Avevano notato che trasportavamo i cani da caccia. Un furto di fucili con quel metodo…».
Come possiamo definire “quel metodo”?
«Un metodo utilizzato dalla manovalanza, della feccia della ‘ndragheta, che va a recuperare soldi, armi che, nella maggior parte dei casi, vanno a finire nel mercato nero. Possono essere utilizzate per le faide, da gente che non ha il porto d’armi. Utilizzate per qualsiasi cosa: dall’omicidio fino alla rapina».

Quante persone erano?
«Due persone. Tutte e due armate. Uno con la pistola, uno con il Kalashnikov. Tutto è successo in pochissimi secondi. Ci hanno puntato addosso le armi, ci hanno detto di rimanere in macchina. Quello con la pistola si è avvicinato al lato passeggero. Hanno urlato di consegnare i cellulari, i portafogli, i documenti e le armi».
Lei cosa ha fatto in quel momento?
«Ho nascosto il cellulare sotto i pedali. Era l’unico modo per poter avvertire subito le forze dell’ordine. Erano freddi, molto sicuri di sé. Operavano come se l’avessero già fatto molte volte. Niente panico, nessun gesto incerto. Tutto rapido, preciso».
Come comunicavano tra loro?
«Non erano nervosi, anzi. Erano professionali. Si muovevano con sicurezza, parlavano tra loro come se stessero seguendo un piano. Ho capito dalle voci che erano della zona. Non venivano da altre province. Sapevano dove si trovavano».
Quante armi hanno rubato?
«Hanno preso due fucili, su tre. Il terzo era posizionato sotto altre attrezzature, non era visibile. Hanno preso quello che potevano e sono scappati appena hanno visto arrivare altre macchine. Tutto è durato forse quattro o cinque minuti. Ma sembrava un’eternità».
Sono stati minacciosi?
«A un certo punto, vedendo che perdevo tempo, uno di loro mi ha detto: “Hai cento secondi per prendere il fucile”. Erano decisi. Non mi hanno lasciato margine. Non erano dei dilettanti. Erano preparati, sapevano quello che facevano».
Come descriverebbe il momento vissuto?
«C’è stato un attimo di paura, iniziale. Poi ho avuto un forte autocontrollo, sono riuscito a gestire la situazione. Ma la parte brutta è arrivata dopo, quando ti fermi e pensi a come poteva finire. Ti rendi conto che per una passione, per una giornata con i nostri amati cani, rischi la vita. E allora ti chiedi: ne vale la pena?».

Cosa rappresenta per lei la caccia?
«È una passione tramandata di padre in figlio, da generazioni. È un momento di libertà, di relazione, di tradizione. Ma se oggi andare a caccia significa rischiare di morire, allora qualcosa si è rotto. Oggi si rischia la vita per un fucile. È assurdo. Non c’è più serenità».
Avete sporto denuncia?
«Sì, è stata fatta regolare denuncia».
Cosa pensa della ’ndrangheta?
«Un’organizzazione criminale di merda che sta rovinando questa regione. Ha distrutto famiglie, persone, lavoro. E continua a farlo in modo diverso, allargando il suo potere in tutta Italia e nel mondo. È un’organizzazione mondiale ormai».
Cosa pensa della solidarietà espressa da rappresentanti politici locali dopo l’accaduto?
«Le cose fatte di facciata non servono a niente. Non servono a me e non servono a nessuno. Bisogna fare i fatti. Le persone che hanno ruoli importanti devono prendere posizione, agire, non limitarsi a dire “mi dispiace”. Se ognuno desse il proprio contributo, tante cose si risolverebbero».
Cosa significa “prendere posizione”?
«Significa sconfiggere questo male. Nell’era della tecnologia, se ci fosse un interesse concreto, non ci vorrebbe molto. Serve la volontà. Se le persone lo vogliono davvero, tutto questo può finire».
Dopo l’agguato, è tornato su quella strada?
«Sì, già il giorno dopo. Però conosco cacciatori che, dopo aver saputo di quello che è successo, non escono più. Hanno paura. E questa è la cosa più grave. Perché la paura è la prima vittoria di chi ci vuole zitti».
Immagine di copertina realizzata con AI
Come si può sconfiggere la ’ndrangheta se la politica non la nomina?
Calabria, assalto sulla SP 52: cacciatori rapinati dei fucili per alimentare una faida?





