Ci sono momenti in cui la televisione non racconta più la società: la riflette come uno specchio deformato, amplificando il peggio. È successo di nuovo e stavolta in prima serata, nel tempio della Rai, con la partecipazione di Rita De Crescenzo a Belve.
Un evento? No. Un sintomo. L’ennesima radiografia di un Paese che ormai confonde la popolarità con il valore, l’eccesso con la verità, e la morbosità con l’empatia.
Perché, diciamolo senza ipocrisie: ospitare Rita De Crescenzo in prima serata non è un atto di inclusione, è una scelta di marketing. È la solita corsa al rialzo di share, alla ricerca di qualche punto percentuale di attenzione in più, anche a costo di sacrificare il buon senso, il rispetto e la decenza televisiva.
Non importa cosa rappresenti il personaggio, cosa comunichi ai più giovani, quale esempio porti con sé, ciò che conta è che funzioni, che faccia parlare, che diventi virale, che porti clip da milioni di visualizzazioni su TikTok. Tutto il resto può aspettare: la responsabilità culturale, il ruolo educativo, perfino la dignità.
Viviamo in un tempo in cui non conta più il “cosa” si dice, ma chi lo dice e quanto rumore produce. E così la tv pubblica, quella che dovrebbe custodire il racconto autentico del Paese, si trasforma in una succursale del web più becero, dove le vite diventano meme e i drammi personali materia di spettacolo.
Rita De Crescenzo non è la causa — è l’effetto. L’effetto di una fame insaziabile di visibilità, di un bisogno patologico di essere guardati, anche se per farsi guardare bisogna spogliarsi della propria dignità.
La verità è che non fa scandalo lei, ma chi la ospita. Chi la chiama in trasmissione non per capire, ma per usare.
Chi le accende i riflettori addosso sapendo che non sta dando voce a una storia di rinascita ma a un meccanismo di sfruttamento mediatico travestito da empatia.
Perché è facile nascondersi dietro la parola “umanità”, è comodo dire “tutte le storie meritano di essere raccontate”. Ma raccontare non significa esporre, né significa legittimare.
Significa contestualizzare, interpretare, restituire senso. Qui invece non c’è senso, solo share.
Rita parla del suo passato — la droga, la violenza, la miseria, l’abbandono — e la platea ascolta con lo stesso sguardo con cui si guarda un incidente in autostrada: senza empatia, ma con morbosa curiosità.
Non ci si commuove: si consuma.
Non si riflette: si commenta.
Ed è proprio questa la tragedia più grande del nostro tempo: l’aver trasformato la sofferenza in intrattenimento, la fragilità in contenuto, l’umanità in materiale di consumo.
La Rai, che dovrebbe essere il presidio della cultura, si è piegata alla logica della viralità. Non importa se il personaggio divide, se rappresenta il peggio dei social, se la sua notorietà nasce da contenuti al limite del decente. Importa che “funzioni”. Che faccia numeri.
E allora la domanda è: fino a che punto siamo disposti a spingerci per non spegnere un riflettore?
Fino a che punto il servizio pubblico può prostituirsi al sensazionalismo?
Perché chiamare Rita De Crescenzo non è un gesto neutro — è una dichiarazione di intenti. È dire: “Siamo disposti a tutto pur di farvi guardare”.
C’è una verità amara che nessuno vuole ammettere: la tv non è più uno specchio del Paese, è un amplificatore della sua mediocrità.
E noi, pubblico, non siamo innocenti. Perché ogni volta che clicchiamo, ogni volta che commentiamo, ogni volta che indignati condividiamo il video che tanto critichiamo, diventiamo parte dello stesso gioco.
È un patto sporco: noi fingiamo di scandalizzarci, loro fingono di fare giornalismo.
Ma in realtà ci nutriamo a vicenda di un unico alimento: il vuoto.
Si dice spesso che la tv debba “rappresentare la realtà”. Ma quale realtà stiamo scegliendo di rappresentare?
Quella fatta di ferite aperte esibite come trofei?
Di traumi monetizzati a colpi di like?
Di fragilità esposte per riempire un palinsesto?
Non si tratta più di dare voce agli ultimi ma di trasformarli in fenomeni. E in questo processo, la compassione muore, l’empatia evapora e resta solo la crudeltà travestita da curiosità sociale.
Non c’è nulla di “inclusivo” nell’usare la sofferenza come intrattenimento.
Non c’è nulla di “autentico” nel mettere in vetrina il dolore per aumentare lo share.
E non c’è nulla di “giornalistico” nell’inseguire il clamore per paura del silenzio.
È la resa della cultura alla logica del mercato. È l’arte di far rumore anche quando non si ha nulla da dire.
Alla fine, la verità è semplice e terribile: la nostra è una società che non vuole più capire, vuole solo guardare.
E guardare chiunque, purché faccia rumore. Siamo arrivati al punto in cui una storia di dolore viene confezionata come intrattenimento e venduta come testimonianza, mentre il Paese applaude, commenta, deride, condivide.
Una società così non è solo stanca: è malata.
E la tv che la rappresenta non è solo complice: è il suo specchio più fedele.
In un’Italia che ha smarrito il senso del pudore mediatico, Belve è diventato lo zoo delle coscienze: si entra per vedere “l’anomalia”, per scrutare l’abisso, per sentirsi migliori.
Ma alla fine, ciò che resta non è la storia di Rita De Crescenzo.
Ciò che resta è la vergogna di una cultura che confonde la luce dei riflettori con la luce della verità.
E quando anche il servizio pubblico comincia ad inginocchiarsi davanti al dio dell’audience, non resta che una domanda amara: chi sono davvero le “belve”?
Quelle che siedono davanti alle telecamere, o quelle che, da casa, applaudono e commentano, alimentando il circo del nulla?


