“Accendere la fontana con l’acqua e spegnerla con il fuoco”.
Un cellulare, una diretta TikTok, un uomo che parla con voce concitata. A prima vista sembra l’ennesimo sfogo social, ma dietro le parole di Giovanni D’Avino, figlio dell’ex boss di camorra Fiore D’Avino, si nasconde una storia che intreccia paura, denuncia e memoria criminale.
Giovanni, agitato ma lucido, si rivolge ai suoi spettatori con un messaggio diretto:
“Da buon cittadino ed esemplare voglio denunciare Fiore D’Avino pubblicamente”.
E continua:
“Ha commesso il reato e si è dileguato. Un gesto eclatante. Chi lo ha visto ne resterà toccato fino al giorno della sua esistenza”.
Ma Giovanni D’Avino a chi si riferisce? Di quale reato parla? Chi lo ha commesso?
Poi un riferimento con una espressione gergale: il riferimento è a un omicidio commesso in passato?
“Accendere la fontana con l’acqua e spegnerla con il fuoco”.
Un linguaggio criptico, quasi simbolico, che a molti è sembrato assurdo. Ma letto in controluce, assume il tono di una denuncia, un grido di ribellione di un figlio che rifiuta l’eredità del padre e chiede di essere ascoltato.
“Ho visto un reato e sto denunciando la cosa. Un fatto di cronaca molto ma molto importante. Mai mi sarei aspettato di vivere una cosa del genere”.
Chi era Fiore D’Avino
Fiore D’Avino è stato uno dei boss più potenti dell’area vesuviana, protagonista degli anni di fuoco della camorra legata a Carmine Alfieri e Michele Zaza. Insieme al fratello Luigi, anch’egli poi collaboratore di giustizia, aveva costruito un impero criminale fatto di appalti truccati, omicidi e alleanze trasversali.
Entrambi, dopo una lunga scia di sangue, decisero di collaborare con lo Stato. 
Ma le ferite della loro storia non si sono mai chiuse, soprattutto a Somma Vesuviana, dove il nome D’Avino continua a incutere timore.
Il ritorno e il pestaggio
Dopo anni trascorsi sotto protezione, Giovanni D’Avino ha deciso di tornare nel paese d’origine. Voleva ricominciare, lavorare, vivere una vita normale. Ma non è facile cancellare un cognome così pesante.
Dopo il suo ritorno, è stato aggredito brutalmente in via Aldo Moro, in pieno centro. Un pestaggio pubblico, violento, avvenuto a pochi metri dall’attività di un assessore alla legalità. Un segnale chiaro: “ti ricordiamo chi sei e da dove vieni”.
Nei giorni successivi, molti cittadini avrebbero rivisto anche lo zio Luigi D’Avino in paese, ormai libero dopo aver scontato la sua pena, mentre Fiore sarebbe ancora agli arresti domiciliari. Giovanni, ferito e impaurito, sparisce per un po’. Poi torna, sui social.

Le dirette TikTok e la denuncia simbolica
Le dirette di Giovanni su TikTok diventano sempre più numerose e inquietanti. Parla di “reati”, di “gesti eclatanti”, di “chi ha visto e non dimenticherà mai”.
Un linguaggio pieno di metafore potenti: l’acqua e il fuoco, la fontana che si spegne, la purezza contaminata.
Parla di un uomo con un cappellino, vestito di nero, che arriva in piazza Margherita (dove si trovava la fontana), commette il fatto, entra in un vicolo, si cambia i vestiti e se ne va tranquillamente. Si dice sconvolto, non mostra il viso, come è possibile vedere nel frammento di video che abbiamo pubblicato. Solo la sua voce, ferma. Chiede aiuto alle forze dell’ordine. Parla di un geometra romano e di un politico che “ha avuto la bomba in via Aldo Moro”. Parla dei politici locali. Parla di soldi restituiti da un imprenditore di Somma. Fa il nome di un pluripregiudicato che sta sempre in via Aldo Moro.
In un altro passaggio si dice pronto a pagare per qualcosa che ha commesso non solo per colpa sua. Parla di bombe, di legami con la politica e con il mondo della malavita.
Dietro le parole, il conflitto irrisolto con il padre Fiore? Giovanni denuncia, chiedendo protezione e ascolto alle autorità.
“Non ho trovato altre formule per farlo. Sto denunciando la cosa attraverso il social”.
Le sue dirette diventano una forma di denuncia, un atto pubblico che fonde realtà e allegoria, rabbia e dolore, nella speranza che qualcuno lo ascolti davvero.
Un grido che chiede di essere interpretato
Dietro la teatralità delle sue parole si intravede la disperazione di un uomo che non vuole più essere “il figlio del boss”. Ufficialmente ex. Le sue dirette su TikTok sembrano una richiesta di giustizia.
Oggi il profilo di Giovanni D’Avino è tornato attivo, ma le live sono cessate. Silenzio. Resta il dubbio: è stato minacciato o ha già detto troppo?
In ogni caso, la sua voce resta sospesa tra due mondi, quello criminale che vuole dimenticare, e quello civile che ancora non lo riconosce.
Un figlio che denuncia il padre. Una fontana che brucia. Una città che ascolta in silenzio.
A proposito della fontana di piazza Margherita, con annessi vicoletti, dobbiamo aggiungere che la stessa era fisicamente presente fino a qualche anno fa. Giovanni D’Avino si riferiva a un fatto criminoso datato nel tempo?

L’avvocato Bucci: “TikTok non è un tribunale. Se vuoi denunciare, vai in DDA”
“TikTok non è titolo idoneo da impulso all’esercizio dell’azione penale”. Così esordisce l’avvocato Antonio Bucci, legale di Fiore D’Avino, dopo aver ascoltato il nostro racconto sulle dirette del figlio Giovanni D’Avino, trasmesse negli ultimi giorni sui social.
Il figlio dell’ex boss di camorra, poi collaboratore di giustizia, ha infatti pubblicato una serie di video in cui dice testualmente: “Voglio denunciare pubblicamente Fiore D’Avino”, riferendosi al padre.
“Accendere la fontana con l’acqua e spegnerla con il fuoco”, aveva detto Giovanni D’Avino durante la diretta.
“Quel linguaggio non significa nulla. Mai sentito in 40 anni di esperienza”. L’avvocato Bucci non si nasconde dietro le parole. Parla con chiarezza e con la sicurezza di chi conosce – per l’esperienza professionale – certi ambienti e certe dinamiche.
“Uno che dice ‘voglio denunciare mio padre’, va bene. Ma prima di tutto bisognerebbe capire che cosa denuncia.
Nella diretta dice: ‘accendere la fontana con l’acqua e spegnerla con il fuoco’? Guardi, io ho una notevole esperienza di reati di criminalità organizzata, li ho trattati per anni. Ho conosciuto tanti gerghi, tanti linguaggi.
Ma questo, glielo dico sinceramente, non l’ho mai sentito.
È un linguaggio imperscrutabile, senza senso, che non lascia capire nulla. Non ha alcun significato giuridico, né logico”.
E continua:
“Poi dice di aver visto un uomo vestito di nero, con un cappellino, che entra in un vicolo. Ma qual è il reato?
Perché andare in giro con un cappello nero non è un reato. Se questa è una denuncia, non vedo l’interesse né la rilevanza penale.
Parliamo di parole, non di fatti”.
“Se vuoi denunciare, vai in Procura. Non su TikTok”
“Se davvero Giovanni D’Avino vuole denunciare qualcuno, vada in Procura. Lì troverà magistrati seri, capaci, che ascoltano e indagano, specialmente oggi, con una DDA di Napoli che funziona bene, sotto l’egida del dottor Nicola Gratteri. Ma TikTok non è una Procura.
Non penso che una diretta su un social possa essere considerata atto idoneo a far scattare un’indagine.
È un veicolo di comunicazione, certo, ma non di giustizia”.
Il legale aggiunge una riflessione amara ma lucida:
“Oggi si denuncia tutto su internet, ma nessuno denuncia più nei luoghi giusti”.
Alla domanda sui motivi che potrebbero aver spinto Giovanni D’Avino a un gesto simile, l’avvocato Bucci è netto:
“Di solito, anche in contesti mafiosi o criminali, quando si denuncia un familiare si spiega anche perché.
Si dice: ‘denuncio mio padre perché non mi ha dato i soldi’, oppure ‘perché ha tradito qualcuno’, ‘perché mi ha coinvolto in qualcosa’. Ma qui non c’è nulla.
Giovanni dice solo ‘voglio denunciare Fiore D’Avino’, senza spiegare niente.
A quel punto potrei pensare che abbia avuto una visione mistica, come quando qualcuno dice: ‘ho sognato Gesù e mi ha detto di raccontare tutto’.
Ma allora si entra nel campo psichiatrico, non in quello penale”.
“I rapporti padre-figlio? Non li conosco”
Alla domanda diretta sui rapporti tra padre e figlio, Bucci risponde con chiarezza:
“Non lo so, e le spiego perché. Giovanni D’Avino è stato mio assistito in passato, in una pena alternativa.
E oggi sono l’avvocato del padre, Fiore D’Avino.
Ma io non sono né psicologo né confessore dei miei clienti. Se volessi conoscere i rapporti tra padre e figlio di tutti i miei assistiti, dovrei fare il sociologo, non l’avvocato”.
Fiore D’Avino legge i nostri articoli.
“Il signor D’Avino è venuto a conoscenza del pestaggio solo dopo aver letto un vostro articolo. Ma con me non ha mai fatto confidenze su ciò che prova o pensa. Io ricevo un mandato, leggo gli atti, li spiego al cliente e lo difendo.
Non faccio confidenze con nessuno”.
“Sul presunto pestaggio: io non mi faccio idee, non è il mio mestiere”
L’avvocato Bucci risponde anche alla domanda sul presunto pestaggio avvenuto a Somma Vesuviana, che aveva coinvolto il figlio Giovanni:
“Io non mi faccio idee. Non so perché sia avvenuto, né se dietro ci sia qualcosa di serio. Oggi la gente si picchia per una manovra sbagliata davanti a un semaforo.
Possono esserci mille motivi o nessuno. Se quel fatto nasconde qualcosa di più, se c’è un impulso d’indagine legato alla criminalità organizzata, allora toccherà alla Procura o alla DDA far luce.
Io non mi baso sui pettegolezzi di TikTok o dei giornali. Io faccio l’avvocato, non l’investigatore”.
Le parole dell’avvocato Bucci restituiscono un quadro diverso: nessuna teoria, nessun giudizio.
“La denuncia si fa davanti a un magistrato, non davanti a un telefonino”.
Camorra a Somma Vesuviana: il pestaggio del figlio di Fiore D’Avino è un segnale di guerra
 
			 
                                 
			 
                                 
                                







 
							

 
							