La 4ª edizione del Premio Nazionale Lea Garofalo si è aperta con un messaggio che avrebbe dovuto infondere fiducia: «Le istituzioni ci sono. Noi ci siamo».
Una dichiarazione solenne, roboante, pronunciata dal palco durante il convegno “Donna, Violenza, Mafie” dal Prefetto Maria Grazia Nicolò, Commissario straordinario del Governo antiracket e antiusura.
Parole che, in teoria, dovrebbero essere il punto di partenza per ricostruire fiducia, protezione, futuro.
Ma a Cremona, quelle parole hanno risuonato come un eco stonato. Perché proprio lì, davanti alla memoria di una donna assassinata dopo aver denunciato, e davanti a chi continua a combattere la stessa battaglia, il paradosso è diventato evidente: le istituzioni “ci sono” solo quando parlano.
Moltissimo meno quando dovrebbero agire.
Il silenzio che avvolge i testimoni
Mentre sul palco si proclamava la presenza delle istituzioni, nella realtà, quella concreta, quotidiana, lontana dai riflettori, i testimoni di giustizia continuano a essere lasciati soli. Lo sanno le donne che hanno denunciato violenze familiari, mafiose, patriarcali. Lo sanno i loro figli, costretti a cambiare città, identità, scuola, lavoro. Lo sa chi ha pagato con la vita la propria scelta di verità.
E allora, in quella sala, è emerso un contrasto impossibile da ignorare: come si può dire che “le istituzioni ci sono” quando, per chi denuncia davvero, ciò che arriva è un silenzio che fa rumore, un silenzio che pesa, un silenzio che uccide?
Noi lo abbiamo denunciato nei nostri articoli: la presidente Chiara Colosimo della Commissione parlamentare Antimafia (che riceve il Leone d’Oro per la legalità), la Commissione centrale ex art. 10, il Servizio centrale di Protezione non hanno speso una parola sui drammi e sulle richieste dei testimoni di giustizia. Lo Stato e le sue Istituzioni non hanno dato nessuna risposta. Istituzioni che non parlano. Istituzioni che non agiscono.
Silenzio tombale, silenzio totale. Dov’è la loro presenza? Dove finiscono i loro inutili proclami? Le parole se le porta via il vento. I fatti non sono stati ancora registrati.
Il Premio Nazionale ha ricordato questo: Lea non è sola. Dietro Lea ci sono centinaia di donne invisibili allo Stato, ma visibilissime alla violenza. Donne la cui voce si spezza contro muri istituzionali che parlano nei convegni e tacciono nella vita vera.
La crepa tra dichiarazioni e responsabilità
È in questo scenario che il messaggio istituzionale entra in collisione con i fatti. Dire «noi ci siamo» significa assumere un impegno. Ma per i testimoni di giustizia quell’impegno non si vede, non si sente, non si tocca.
E mentre la sala ascoltava interventi appassionati sulla necessità di proteggere le donne e sostenere chi denuncia, nell’aria restava la domanda più scomoda: se le istituzioni ci sono, perché il loro silenzio pesa così tanto?

Il tavolo, dopo l’evento: dove il silenzio istituzionale diventa negazione
La discussione non è avvenuta davanti al pubblico, ma dopo l’evento, attorno a un tavolo che avrebbe dovuto essere un luogo di rispetto, confronto, memoria. E invece è diventato il teatro di una ferita aperta.
È lì che Marisa Garofalo, da sedici anni voce instancabile della sorella Lea, si è trovata davanti non al sostegno delle istituzioni, ma a qualcosa di molto diverso: la negazione della realtà, la messa in dubbio della sua testimonianza, il tentativo di riscrivere i fatti. Marisa lo racconta così, senza filtri, con la fatica di chi porta sulle spalle la memoria e il dolore:
«La dottoressa Prefetta mi ha chiesto come mai mia sorella aveva deciso di abbandonare il programma di protezione. Io ho risposto che Lea mi aveva chiamata perché da tempo erano senza soldi e non potevano fare la spesa».
Parole semplici, dirette, vere. Parole che nascono da un frigorifero aperto e trovato vuoto, con dentro solo due bottiglie d’acqua. Ma a quel tavolo la verità non ha trovato ascolto.
«Non sono stata creduta, racconta Marisa, perché Lei insisteva che nel programma, per legge, Lea riceveva mensilmente un assegno».
A nulla è servito ricordare l’episodio di quegli ultimi giorni di vita, quando Lea si era vista negare dieci euro chiesti in prestito “a un barista che conosceva”, necessario per comprare qualcosa da mangiare. Un dettaglio che pesa come un macigno. Un dettaglio che non dovrebbe mai essere contestato da chi rappresenta lo Stato.
“Sono 16 anni che do voce a Lea”
Poi la frase più dura, quella che non dovrebbe mai essere pronunciata da chi ha un ruolo istituzionale. Il dubbio.
Il giudizio sul racconto di Marisa. E allora la sua risposta è diventata una dichiarazione di dignità:
«Sono 16 anni che do voce a Lea, non ho mai raccontato bugie. Essere screditata il giorno del Premio Nazionale dedicato a Lea mi ha fatto stare male».
Questa è la parte più dolorosa dell’intera vicenda: non l’incomprensione, ma la sfiducia. Non il dialogo, ma la negazione.
In un evento nato per onorare il coraggio di Lea, nel luogo dove si celebra la memoria delle donne che denunciano, una donna, sua sorella, è stata messa in discussione proprio da chi avrebbe dovuto ascoltarla.
Un cortocircuito simbolico, umano, istituzionale.
Ed è qui che l’intera giornata assume il suo significato più amaro. Perché poche ore prima, sul palco, era stato detto:
«Le istituzioni ci sono. Noi ci siamo».
Ma attorno a quel tavolo, davanti alla storia nuda e cruda di Lea, di sua figlia, della loro fame, della loro solitudine, di quegli ultimi giorni vissuti come invisibili… lo Stato non c’era.
C’erano i simboli, le divise, le sedie riservate. Ma non c’era l’ascolto. Non c’era il rispetto dovuto. Non c’era la capacità di riconoscere una verità che brucia. E così quel “noi ci siamo” perde peso, perde credibilità, perde anima.
Si svuota, si sfalda, diventa solo formula.
A Cremona, nel luogo dedicato alla sua vita e al suo sacrificio, è tornata a emergere una frattura antica: quella tra chi protegge i testimoni e chi protegge la narrazione.
Il Premio ha ricordato una cosa semplice, feroce, necessaria: Lea Garofalo non può più difendersi. Sta a noi farlo. E anche quando qualcuno prova a riscrivere la sua storia, la verità rimane lì, ostinata, luminosa, impossibile da cancellare.





