C’è un momento, in ogni territorio che vive da troppo tempo in equilibrio precario tra promesse politiche, emergenze quotidiane e narrazioni addolcite, in cui la verità torna a bussare alla porta. Lo fa senza chiedere il permesso, senza lasciarti il tempo di prepararti. Lo fa com’è accaduto ieri sera, quando Report ha mostrato — ancora una volta — la realtà della sanità campana, quella che da anni tenta di rimettersi in piedi, ma continua a inciampare nei suoi stessi paradossi.
Perché la Campania è bellissima, sì. Napoli è diventata una cartolina internazionale: vicoli pieni, selfie, tazzine di caffè, sorrisi immortalati nei vlog e nei reel dei turisti. Ma la verità è che esiste un’altra Campania, quella che non compare nei pacchetti weekend, quella che non finisce nelle pubblicità. Una Campania dove un pronto soccorso può essere inaugurato, finanziato, annunciato e poi rimanere chiuso. Dove due università destinano fondi pubblici per strutture d’emergenza mai realmente attivate, lasciate a metà, come scenografie che aspettano un film che nessuno girerà. Dove interi reparti restano solo nomi sulle targhe e gli infermieri devono fare i conti con turni impossibili, straordinari non pagati, strumenti che non ci sono.
E la domanda che nasce spontanea è sempre la stessa: sono soldi spesi male o soldi mai utilizzati? Peggio ancora: sono soldi dimenticati?
Da Napoli a Pomigliano, da Giugliano ad Agropoli: basta percorrere pochi chilometri per rendersi conto che la salute, in Campania, non è un diritto uguale per tutti. Ci sono realtà dove l’ospedale è una presenza rassicurante e altre dove è un miraggio. Ci sono territori — penso alla provincia profonda — dove l’ambulanza arriva dopo mezz’ora, forse di più, e nel frattempo i familiari pregano affinché quella mezz’ora non sia l’ultima.
E mentre la popolazione aumenta, mentre i bisogni dei cittadini si moltiplicano, mentre gli accessi ai pronto soccorso esplodono, il personale invece diminuisce. Mancano medici, mancano infermieri, mancano perfino i posti letto. Manca, soprattutto, una strategia.
Perché puoi inaugurare un reparto ma se non assumi chi ci deve lavorare, quel reparto rimane un monumento all’inefficienza. Puoi stanziare fondi ma se non li utilizzi, tornano ad essere numeri vuoti.
Puoi annunciare cambiamento ma se non entri nelle pieghe delle emergenze vere, resta solo propaganda.
E nel frattempo, i cittadini si arrangiano. Si muovono tra pronto soccorso enormi ed ingolfati, liste d’attesa che sembrano più vicine all’eternità che alla realtà e servizi territoriali completamente insufficienti. Si vive così, sperando di non ammalarsi nel momento sbagliato, nel posto sbagliato.
C’è una narrazione che negli ultimi anni si è alimentata ovunque: Napoli come capitale culturale, come meta internazionale, come città della rinascita. Ed è vero. È una città di energia irripetibile. Ma ogni rinascita reale si misura nella qualità della vita dei cittadini, non in quella dei turisti.
E questa parte della storia, la parte che riguarda la sanità, non si può nascondere. Non la puoi coprire con i murales, con i festival, con la movida. Ci sono problemi talmente grandi da emergere comunque, anche quando preferiremmo guardare altrove.
È come provare a coprire una crepa nel muro con un quadro: per un po’ funziona, poi il muro si sgretola.
La Campania ha voltato pagina. O, almeno, ha detto di volerlo fare.
La vittoria di Roberto Fico ha portato con sé una ventata di aspettative enormi, soprattutto tra chi da anni chiede una riforma seria, concreta, strutturale del sistema sanitario regionale. La sanità è stata la grande promessa di ogni campagna elettorale ma è anche la grande incompiuta di ogni legislatura precedente.
Ed è qui che si gioca tutto: o la nuova giunta mette mano subito, con coraggio, alla macchina inceppata della sanità campana, oppure il cambiamento resterà solo una parola bella da pronunciare nei comizi.
Fico, in campagna elettorale, ha parlato di trasparenza, di riorganizzazione, di investimenti veri. Ma ora arriva la parte difficile, mantenere le promesse. Perché i cittadini non possono più aspettare. Non possono più sentirsi dire che “si sta lavorando per migliorare”. Non possono più essere spettatori di un’inchiesta dopo l’altra che racconta sempre lo stesso copione: sprechi, ritardi, strutture fantasma, personale insufficiente.
Se la nuova giunta non partirà proprio da qui — dall’emergenza nell’emergenza — allora la “ventata di cambiamento” sarà stata l’ennesima illusione, l’ennesima promessa che evapora il giorno dopo le elezioni.
Ogni volta, davanti a queste inchieste, ci chiediamo la stessa cosa: com’è possibile che tutto questo sia stato ignorato così a lungo?
La risposta, forse, è semplice: è comodo raccontare solo la parte bella. È più facile vendere turismo che vendere verità. È più facile nascondere i problemi sotto un velo colorato che affrontarli davvero.
Ma i cittadini non vivono nelle cartoline. Vivono nei quartieri, nelle periferie, nei paesi dove l’ospedale diventa una scelta obbligata, non un’opzione. Vivono nell’incertezza di cosa troveranno quando entreranno in un pronto soccorso: cure o caos?
Ed è per loro che bisogna raccontare tutto questo. Perché una regione che vuole rinascere davvero deve partire dalle ferite, non dagli slogan.
Dai reparti che mancano, dalle esigenze dei cittadini.
E allora, forse, solo allora, la Campania smetterà di essere il luogo delle occasioni mancate e diventerà davvero ciò che merita di essere: una terra bella, sì, ma anche giusta. Una terra dove non servono più inchieste per ricordarci cosa non funziona.
Perché quando la sanità è malata, ad essere malata è tutta la società.
E ignorarlo, oggi, non è più possibile.



