In un pianeta che dovrebbe correre verso il disarmo, immerso in un’epoca in cui oltre 15.000 armi atomiche basterebbero a cancellare per sempre la storia umana, ci muoviamo invece nella direzione opposta: un ritorno rapido, quasi euforico, al riarmo globale. Le spese militari crescono senza pudore: dal 2% al 5% del Pil, come se il futuro non avesse bisogno di scuole, sanità, lavoro, ma solo di arsenali pronti a esplodere.
In questo scenario, i militari entrano nelle scuole, non per educare alla pace ma per abituare le nuove generazioni all’idea che la guerra è una possibilità concreta, quasi un destino. Si parla di ripristino del servizio di leva, come se militarizzare i corpi potesse colmare il vuoto di valori di una società che sembra non riuscire più a pensare da sé.
Viviamo dentro un pensiero unico che soffoca ogni critica, dentro una crisi valoriale che diventa fertile terreno per un’unica spinta: il bellicismo. Ci stanno dicendo che dobbiamo accettare massacri, mutilazioni, fame e violenza come elementi strutturali del nostro futuro. Che la guerra è un passaggio obbligato, una purificazione necessaria.
E allora il quadro diventa chiaro: nel vuoto della politica, ormai evidente nella sua incapacità di visione e nella sua dipendenza dall’economia, comandano solo i mercanti di morte. Le istituzioni non costruiscono più luoghi dove far decantare le tensioni, non cercano soluzioni per la distribuzione della ricchezza, per una gestione pacifica di un mondo multipolare, per affrontare i giganteschi problemi ambientali.
Hanno deciso, invece, che la nostra educazione collettiva debba avvenire nel fuoco della guerra.
Il re è nudo. E mostra una miseria che non si può più ignorare, a meno di voler essere travolti. Perché il rischio è chiaro: un mondo governato da dirigenti selezionati per essere schiavi degli interessi altrui, incapaci di difendere il bene comune, pronti a condurre intere popolazioni dentro conflitti che non le riguardano.
E allora resta una sola strada: ribellarsi. Prima che il silenzio, la paura e l’abitudine al disumano ci trascinino nel baratro.
Perché la guerra non è destino. È una scelta. E si può ancora dire no.





