C’è stato un momento in cui la voce di Alessandra Dolci, Procuratrice Antimafia e coordinatrice della DDA di Milano, ha fatto vibrare la sala più del microfono. Una di quelle frasi che non si archiviano, che ti costringono a guardarti allo specchio:
“Se Lea Garofalo è morta il 24 novembre 2009, è perché qualcosa non ha funzionato. E noi abbiamo il dovere di capire cosa”.
È iniziato così, senza sconti, l’intervento che ha segnato la presentazione del libro “Una fimmina calabrese. Così Lea Garofalo sfidò la ‘ndrangheta”, scritto da Paolo De Chiara, alla presenza del Procuratore di Brescia Francesco Prete e di Marisa Garofalo, sorella di Lea e custode ferrea della sua memoria.
Un intervento che non era un discorso, ma un atto d’accusa, contro le nostre comodità, le nostre disattenzioni, i nostri silenzi.
Collaboratori e testimoni: la differenza che molti ignorano
La Procuratrice ha fatto ciò che dovrebbe fare ogni istituzione quando parla ai cittadini: spiegare, senza retorica, come stanno le cose.
E lo ha fatto così: i collaboratori di giustizia sono persone che hanno commesso reati, appartenenti alla ‘ndrangheta, e decidono di raccontare tutto, anche ciò che inchioda i propri padri, fratelli, cugini. Un percorso “lacerante”, dice Dolci. E non c’è aggettivo più preciso. I testimoni di giustizia, invece, sono civili. Gente comune. Gente che vede, che subisce, che non gira la testa dall’altra parte.
Due mondi diversi, troppo spesso confusi da chi parla senza conoscere. E Dolci lo ripete con forza: anche la protezione è diversa, anche il rischio è diverso, anche il prezzo è diverso.
Il programma di protezione: tra teoria e cruda realtà
La parte più dura del suo intervento arriva quando racconta ciò che non si legge nei codici, né nei comunicati ufficiali: la vita dietro la porta chiusa della località protetta. Un elenco di ferite: famiglie prelevate “dalla sera alla mattina”, ragazzi costretti ad abbandonare amici, scuola, telefono. Trasferimenti improvvisi perché qualcuno ha rivelato per sbaglio la città dove vivevano, case “fatiscenti”, stipendi insufficienti, reinserimenti impossibili. Identità nuove che non cancellano il dolore vecchio.
È un quadro crudo, persino amaro, ma necessario. Perché, dice Dolci, se non si capisce quale vita spezzata c’è dietro una testimonianza, allora non si è capito niente.
Il ruolo delle donne nella ‘ndrangheta: la verità che molti non vogliono ascoltare
Il pubblico trattiene il fiato quando la Procuratrice affronta un nodo che pesa come una pietra:
“Le donne, nella ‘ndrangheta, educano al codice mafioso. Pretendono vendetta”.
Dolci non edulcora nulla. Racconta matrimoni combinati, onori da proteggere come gabbie, famiglie che frantumano la volontà di chi vuole salvarsi. Poi arriva il cuore del suo discorso: donne che rompono il giocattolo.
Donne come:
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Lea Garofalo, uccisa perché aveva scelto la libertà.
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Maria Concetta Cacciola, suicidata con l’acido muriatico.
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Giuseppina Pesce, isolata per una scelta di vita.
Storie che pesano come macigni. Storie che dovrebbero essere studiate nelle scuole, non ricordate solo nelle commemorazioni.
“Scegliere da che parte stare”
C’è una frase che Dolci ripete come una bussola:
“Scegliere da che parte stare”.
Ma lo dice in modo concreto, non simbolico. Racconta di un paese vicino Milano. Da un lato, una trattoria gestita da cooperative sociali. Dall’altro, un locale bellissimo, di proprietà della famiglia dei mafiosi. Indovinate qual era sempre pieno? Indovinate quale è stato costretto a chiudere?
Dolci non giudica. Dolci denuncia. E dice ai ragazzi, agli adulti, a tutti noi:
“Non aspettate la sentenza per decidere chi sostenere. Basta la cattiva fama. Basta la puzza di compromesso”.
Questo è il punto più alto della sua lezione: la lotta alla mafia non inizia nelle aule dei tribunali, ma nelle scelte ordinarie di ogni cittadino.
Beni confiscati: la frontiera della resistenza civile
La Procura di Milano, dice Dolci, ha un mare di beni confiscati. Troppi, spesso inutilizzati. E troppi, soprattutto, lasciati andare in rovina. Perché manca personale. Perché mancano mani. Perché mancano cittadini.
E qui arriva l’appello:
“Ci servono i ragazzi. Ci servono le scuole. Ci serve chi vuole sporcarsi le mani di terra, di pittura, di impegno”.
Perché un bene confiscato non è un trofeo giudiziario. È un varco aperto nella storia là dove la mafia voleva un muro.
Dolci chiude il suo intervento senza retorica, senza titoli, senza slogan. Chiude con un imperativo morale:
“Conoscere. Scegliere. Fare”.
Tre verbi che sembrano semplici. Tre verbi che raccontano la storia di Lea Garofalo, della sua solitudine, del suo coraggio, della sua morte e della responsabilità che ricade su di noi, oggi.
I relatori del convegno
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Alessandra Dolci, Procuratrice Antimafia, coordinatrice della DDA di Milano, tra le voci più solide e lucide del contrasto alla criminalità organizzata in Italia.
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Francesco Prete, Procuratore della Repubblica di Brescia, impegnato da anni nella lettura giuridica e storica dei fenomeni mafiosi.
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Marisa Garofalo, sorella di Lea: memoria vivente, testarda, luminosa, mai addomesticata.
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Paolo De Chiara, giornalista e autore di “Una fimmina calabrese”, da anni impegnato nella diffusione della cultura della legalità.
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