Molti anni fa un amico occasionale al quale avevo confessato la mia insana passione per le cose dell’arte – nonchè lo spirito curioso che accompagnava il mio tempo – decise di offrirmi un’ulteriore opportunità. Ad Anagni, a suo dire, viveva un pittor giovane che meritava di essere conosciuto. Un’informazione minima, eppure capace di alimentare quel curioso Iddio che fa da prologo ad ogni nostro incedere. Simili occasioni erano allora – beata giovinezza! – una sorta di momento festoso, da vivere e far decantare con lentezza, rubando finanche gli spezzoni di sole o le tracce d’ombra sul viaggio. Eppoi, Anagni è uno dei pochi luoghi che giustificano la residenza – o la sopravvivenza - in questa terra. Ancora oggi.
Antonio Menenti, il pittor giovane di quel tempo, aveva studio a poche centinaia di metri dal centro storico della città. Uno studio poco illuminato – se non ricordo male – che sapeva di pietra collinare e intonaco rigonfio. A terra una pila di dipinti deposti lungo le pareti. Come valige voluminose nel deposito bagagli di un’ipotetica stazione di frontiera. Fu il primo pensiero quello, dettato forse da quell’Iddio curioso che ci accompagna nei giorni. Non erano in bella mostra quei dipinti; non accoglievano l’interlocutore con la complicità della sorpresa suadente o della chiassosa avvenenza. No, erano a terra, impigriti forse, ma desiderosi di lasciarsi ”sfogliare” poco a poco, lentamente. Lasciando che ogni sosta si riempisse di parole o ricordi, di appunti, di generose fantasticherie.
Scorremmo quelle “pagine” con la pigrizia che si addice agli sconosciuti evitando giudizi banali o assegnazioni repentine. Non era il tempo, ancora. Eppure accade sovente che i “primi passi” siano il prologo sul quale piantare i paletti di rito e procedere per cerchi vicini, aprendo, di volta in volta, ad un’annotazione o a un indugio.
La prima analogia fu con la città. Con la sua memoria. Che aveva alito appassionato e colore di ruggine. E musica ventosa nelle agore o nelle fenditure del portico. E il cadmio luttuoso del papavero morente nei campi di erba medica. La città dunque. O la sua anima. Stratificata da secoli di indizi, di bonarie inclinazioni, di fatiche intollerabili, di silenzio o tormento. Come si conviene ai luoghi in cui la Storia ha trovato legittima dimora. E difficilmente ci si congeda dalla Storia.
I dipinti di Menenti, ammucchiati sul basso delle pareti, erano un passaggio minimo, ma inesauribile, di quella memoria. Sembravano radunare e custodire – talvolta indovinare – le percezioni millenarie giunte all’approdo dei giorni nostri. Così, in un racconto saggiamente celato, Menenti aveva posto delle piccole “fermate” in cui interrompere per qualche tempo il fastidioso esercizio della dimenticanza e suggerire ben altri ripensamenti. Ma non era quella – e non lo sarà in seguito – una ingenua e spossata ricognizione del trascorso. Menenti era – e lo è tuttora – un uomo di frontiera e il confine tra il remoto e il tempo attuale trascina con sè, fatalmente, il desiderio della comprensione, meglio, del sapere.
Quei dipinti, che vidi per la prima volta nella frescura di una primavera appena esibita, segnavano forse la didascalia di un racconto a venire, la traccia indelebile di un’idea che, nel corso degli anni, guarnirà nuove indicazioni. Nacque allora l’ipotesi di una “novella” articolata capace di ripristinare – e mutuare tra loro – accenti lontani, presupposti paralleli, ludiche percezioni.
Nacque allora, alla fine degli anni ’80, il ciclo dei “Polverosi”, una lunga serie di opere capaci di reintegrare, in un’architettura di intonazioni e segni marcatamente contemporanei, le misture torbide di un’arte “familiarmente” medievale.
Una pittura rugginosa, alchemica, talvolta capace di mescolanze materiche. E allo stesso tempo un linguaggio essenziale, rigoroso, poco incline a superflui – o periferici – intrattenimenti.
Sono trascorsi molti anni da quel giorno – oltremodo intervallato da celati e successivi incontri – e nonostante quella didascalia genetica che ne ha scortato il tempo, la pittura di Menenti si è arricchita di un nuovo sillabario cromatico, di preziosi ragionamenti, di curiosi spiragli. Come se l’investigazione sul passato – il luogo e la storia – alimentasse di colpo la consapevolezza intrigante – e intrigata – del presente. Per arsura di sabbie rigonfie, per alberi presunti, per biacche pallide. Frantumi di un “paesaggio totale”.
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2020-08-01 16:10:23
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