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La Riforma agraria e la mafia

by Redazione Web
22 Agosto 2020
in Mafie
Reading Time: 15 mins read
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L'omicidio del sindacalista Battaglia è d'altra parte importante, non solo per le ragioni prima accennate, ma anche perché l'ambiente, in cui maturò e la causale, che 1o avrebbe determinato, stanno a dimostrare, con l'evidenza dei fatti e al di là di tutte le considerazioni, come nel 1966, a oltre quindici anni dalla riforma agraria il fenomeno mafioso fosse ancora vivo ed attivo nelle campagne della Sicilia occidentale.

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Il tentativo della mafia di ostacolare in tutti i modi e anche con il sangue la speranza di rinnovamento delle strutture agrarie della Sicilia sembrava finalmente fallito, dopo decenni di lotta, agli inizi degli anni cinquanta. La legge Gullo-Segni, nonostante i suoi scarsi risultati, aveva già posto, con il divieto del subaffitto, le premesse necessarie perché nelle campagne occidentali dell'Isola si allentasse la stretta mafiosa dei gabellotti, dei campieri e dei soprastanti.

Ma assai più incisiva doveva essere la legge sulla riforma agraria in Sicilia (approvata dall'Assemblea regionale il 27 dicembre 1950), con ila quale si limitava il diritto di proprietà a soli duecento ettari e si imponeva ai singoli proprietari l'obbligo di apportare ai fondi migliorie, bonifiche e trasformazioni.

Si avviava così una riforma, che nel decennio 1951-1960 avrebbe dovuto far progredire l'agricoltura siciliana a una nuova realtà, capace di modificare una struttura secolare e quindi tesa ad annullare completamente proprio quegli spazi lasciati all'intermediazione politica, economica e sociale, sulla quale la mafia aveva saputo costruire la sua forza.

Si trattava di un colpo formidabile al potere mafioso, sia perché si rompeva l'equilibrio sociale cristallizzato, che era stato, come si è visto, l'ambiente di cultura della mafia, sia per la carica di rinnovamento, che, senza distinzioni, tutte le forze politiche dell'Isola annettevano alla riforma.

Dopo la lotta frontale che aveva opposto le forze conservatrici e la mafia al movimento contadino e ai partiti dell'Italia democratica, la riforma agraria poteva essere un colpo mortale per i mafiosi. Ma purtroppo non fu così.

Non si può in primo luogo dimenticare che il governo regionale impedì, per quasi cinque anni, l'applicazione della legge di riforma.

Soltanto nel 1955, dopo una ripresa delle lotte contadine nell'autunno e nell'inverno dell'anno precedente, si riuscì a dare il via all'assegnazione delle terre. Ma intanto gli agrari avevano avuto modo di vendere la parte migliore dei loro fondi, tanto che, ad esempio in provincia di Agrigento, potette essere espropriata ed assegnata ai contadini una superficie inferiore alla metà di quella liberamente venduta dai proprietari.

Avvenne così che i contadini medi furono costretti, spesso dall'intermediazione mafiosa, a sborsare somme ingenti per entrare in possesso delle terre migliori, venendosi quindi a trovare, una volta depauperati del capitale, nella pratica impossibilità di provvedere alle necessarie trasformazioni fondiarie, mentre ai contadini poveri furono date con la riforma agraria le terre peggiori che non si prestavano nemmeno ad essere trasformate.

I proprietari d'altra parte, non contenti di aver potuto continuare a vendere liberamente le proprie terre, si opposero in tutti i modi, con quella che fu chiamata «l'offensiva della carta bollata», all'attuazione sia pure parziale della riforma agraria, senza trovare nessun ostacolo nelle Strutture pubbliche e tanto meno nell'azione dell'Ente di riforma agraria (ERAS).

Né era possibile che l'ERAS contribuisse a un effettivo rinnovamento dell'agricoltura, se nel 1955 la sua gestione era caratterizzata da un parassitismo dilagante e senza freni, quale venne rilevato da un apposito comitato presieduto dal presidente del Consiglio di giustizia amministrativa. Laureati in agraria percepivano stipendi simbolici, nettamene inferiori a quelli che percepiva il personale non qualificato tecnicamente, che costituiva una vera e propria turba ed ogni mattina faceva la fila dinanzi alla sede dell'ente, solo per apporre la firma di presenza e quindi per andare via, non avendo niente da fare e nemmeno un tavolo di lavoro.

Intere famiglie erano collocate nell'Ente come per ricevere un'assistenza in denaro, uno stuolo di studenti universitari percepiva dall'ERAS, a titolo di stipendio o d'indennità, il denaro necessario per frequentare l'Università.

Infine uno stuolo di consulenti tecnici, di assistenti legali (circa cento!), di maestri e così via, completava il quadro.

Le conseguenze idi una politica tanto dissennata sono ancora evidenti.

La prima cosa che balza agli occhi è che esiste ancora in Sicilia un problema fondiario. Le proprietà che hanno una superficie da 200 a oltre 1.000 ettari sono in percentuale, come già si è detto, più che nel resto d'Italia.

Inoltre, la riforma agraria ha interessato complessivamente 200.000 ettari, il 9 per cento della superficie agraria della regione, e, come si è detto, nella maggioranza dei casi, si è trattato di terreni poveri.

Specialmente nelle zone non irrigate, i contadini divenuti proprietari hanno avuto scarse e costose possibilità di effettuare miglioramenti e trasformazioni culturali, e non sono riusciti ad evadere dal circolo vizioso del ristagno e della soggezione, proprio perché non hanno trovato nel reddito della terra loro assegnata condizioni sufficienti di autonomia.

Si sono così perpetuate quelle molteplici figure miste di proprietario partecipante e affittuario-bracciante, che sono state sempre caratteristiche dell'agricoltura siciliana.

Peraltro le strutture agrarie sono state modernizzate soprattutto lungo la fascia costiera e anche nei terreni di mezza dozzina, ma per converso non si è provveduto a estendere la superficie rimboschita a quella irrigua, con la conseguenza che sono aumentati i terreni incolti e franosi e che dall'interno dell'Isola sono state espulse masse consistenti di contadini, di lavoratori, costretti ad emigrare o a trovarsi altre occupazioni, specie nelle attività terziarie.

È nato di qui quello sviluppo distorto, che ha avuto in questi anni l'agricoltura in Sicilia e che ha indotto la classe politica regionale a non assegnare all'attività agricola una funzione trainante e quindi un ruoloeffettivo di rinnovamento delle strutture sociali isolane.

Ciò non significa però che la riforma agraria e l'autonomia regionale non abbiano avuto anche in questo campo effetti positivi e dinamici. Basta ricordare, per convincersene, che negli anni sessanta la produzione lorda vendibile ha avuto un incremento assai più consistente di quella registrata in altre regioni, anche più avanzate sotto il profilo della tecnica agraria e dell'organizzazione produttiva.

Questi progressi però sono stati essenzialmente dovuti all'espansione di due settori: quello agrumicolo (passato da una produzione lorda di 53 miliardi nel 1961 ai 151 miliardi del 1971) e quello ortofrutticolo e delle colture in serra (che ha realizzato nel 1971 un prodotto di 103 miliardi contro i 43 miliardi del 1963).

In entrambi i casi, si tratta di settori, in cui lavorano contadini e piccoli e medi produttori, i quali, mentre hanno avuto il merito di concorrere in misura determinante allo sviluppo dell'agricoltura siciliana, continuano tuttavia da un lato ad essere costretti, quando non sono proprietari della terra che lavorano, a pagare tangenti elevate alla rendita parassitaria e dall'altro a dover in ogni caso fare ricorso all'intermediazione non avendo la forza sufficiente per presentarsi direttamente al mercato.

In questa situazione non è stato difficile alla mafia trovare le condizioni necessarie per la sopravvivenza nelle campagne e nuovo alimento alla sua corsa verso la città.

Non è mancata d'altra parte la consueta duttilità della mafia di insinuarsi, in una certa misura, negli stessi meccanismi della riforma agraria, per distorcerli, in qualche caso, a proprio tornaconto.

Non è naturalmente possibile seguire tutti i sentieri battuti dalla mafia, per infiltrarsi nelle nuove strutture, create in Sicilia per affrancare i contadini dall'antica servitù al padrone; ma per dare un senso concreto a ciò che si è detto, per rendere cioè pallose la capacità della mafia di tentare lo sfruttamento anche di quegli strumenti che erano stati predisposti proprio per combatterla, bisogna almeno ricordarne i due esempi, che la esprimono in forme per così dire, emblematiche: quello relativo alla prima parte del procedimento di espropriazione del feudo Polzello; quello inerente alla gestione dell'irrigazione nelle campagne della Sicilia occidentale.

 

Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976

 

Per approfondimenti:

Prima parte, venerdì 27 marzo 2020: MAFIA, le origini remote

Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020: La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia

Terza parte, venerdì 10 aprile 2020: Le attività mafiose

Quarta parte, venerdì 17 aprile 2020: I mafiosi

Quinta parte, venerdì 24 aprile 2020: Lo Stato di fronte alla mafia

Sesta parte, venerdì 1° maggio 2020: La MAFIA degli anni del dopoguerra

Settima parte, venerdì 8 maggio 2020: La MAFIA a difesa del latifondo

Ottava parte, venerdì 16 maggio 2020: MAFIA: le vicende del separatismo

Nona parte, venerdì 22 maggio 2020: MAFIA e Banditismo

Decima parte, venerdì 5 giugno 2020, Le funzioni della MAFIA di campagna

Undicesima parte, venerdì 19 giugno 2020, Il capo della mafia di Corleone

Dodicesima parte, venerdì 26 giugno 2020, Il capomafia dell’intera Sicilia

Tredicesima parte, venerdì 3 giugno 2020, Le attività della mafia di campagna

Quattordicesima parte, 17giugno 2020, Gli omicidi di sindacalisti e uomini politici    

Quindicesima parte, 24 luglio 2020, Gli interventi giudiziari

Sedicesima parte, 10 agosto 2020, L’impunità dei delitti mafiosi

Diciassettesima parte, 14 agosto 2020, Il questore Angelo Mangano

Diciottesima parte, 17 agosto 2020, L’omicidio del sindacalista Carmelo Battaglia

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