«Sconsacrare tutta la merda che avevano consacrato». PPP
«L’ “Italietta” è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni.»
Lo hanno colpito in vita, attraverso la giustizia borghese (33 processi a suo carico: dal vilipendio della religione al reato di oscenità, fino a una rapina a mano armata), lo hanno diffamato dopo la morte.
Per Faustino Durante, medico legale: «Pasolini l’hanno ammazzato con una macchina identica alla sua. Quella mattina all’Idroscalo, quando ho sollevato il lenzuolo, le tracce dei copertoni erano ben visibili sulla canottiera. Nessuno si è preso la briga di esaminarle, tutte le indagini sono state a dir poco approssimative, ma gli assassini non potevano usare una macchina diversa perché avrebbero corso un rischio troppo grande…».
Il massacro del poeta si è consumato nella notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975.
Da allora solo una versione è stata presa ufficialmente in considerazione. Quella pre-confezionata.
Testimoni silenziati e allontanati, luogo del delitto reso impraticabile, processi farsa. Nelle sentenze si legge il nome di un solo colpevole: Pino “La Rana” Pelosi. Lo avrebbe incontrato, dopo una cena con l’attore Ninetto Davoli e famiglia, alla stazione Termini. Adescato dal poeta. Lo hanno fatto passare per pervertito.
Una colossale cazzata.
Il processo a Pino Pelosi inizia il 2 febbraio del 1976, l’avvocato del giovane omicida reo confesso si chiama Rocco Mangia.
Il difensore di Andrea Ghira, nel processo per il massacro del Circeo del 29 settembre 1975. Il legale di Sandro Saccucci, agente dei servizi (Sid) e deputato Msi resosi latitante per l’omicidio di un giovane comunista a Sezze Romano. Mangia assiste nei processi tutti gli imputati che provengono dall’estrema destra romana.
Chi pagò per la sua difesa? Chi decise che doveva difendere Pelosi?
Dalla SENTENZA di Primo Grado, 26 aprile 1976: «Pelosi non era solo… notevole movimento di persone… chi entrò nella macchina dalla parte dello sportello di sinistra aveva le mani sporche di sangue a seguito della lotta sostenuta col Pasolini. Ma tale persona non poteva essere il Pelosi… il Pasolini ha riportato rilevanti lesioni, con abbondante perdita di sangue, mentre il Pelosi non ha subìto significativi traumi… non vi fu una colluttazione a due ma un’aggressione di più persone nei confronti di un uomo solo… le ferite inferte al Pasolini nella prima fase dell’aggressione sono state prodotte da corpi contundenti diversi da quelli rinvenuti sul posto e repertati… Pasolini subì un’aggressione da parte di più persone restate sconosciute… fu volontariamente ucciso mediante il sormontamento da parte di una macchina».
Il Tribunale dei Minori, presieduto da Carlo Alfredo Moro, il fratello di Aldo Moro, condanna Pelosi (9 anni, 7 mesi e 10 giorni), lo ritiene colpevole del delitto di omicidio volontario in concorso con ignoti.
La sentenza di primo grado viene impugnata dai difensori di Pelosi e, stranamente, dalla Procura generale della Repubblica.
La Corte di Appello di Roma, presieduta da Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, conferma la condanna di Pelosi per omicidio volontario. Sparisce magicamente il concorso con ignoti. Il 26 aprile del 1979 arriva il terzo grado. La pesante pietra tombale viene posizionata sulla morte del poeta. Pelosi resta l’unico responsabile dell’omicidio.
Pier Paolo Pasolini e Pino Pelosi si conoscevano da molto tempo. Si frequentavano da mesi. Nessun adescamento alla stazione di Roma. Insieme erano andati a recuperare le “pizze” rubate dell’ultimo film di Pasolini, il più politico, il più bello, «Salò e le 120 giornate di Sodoma». Un pugno nello stomaco. Pasolini fa mangiare merda ai suoi attori (sequestrati, rinchiusi e torturati dal “Potere”). Da quegli anni poco è cambiato.
Ancora oggi il “Potere” ci fa mangiare merda. E a molti piace pure mangiarla.
Un tranello, presso l’Idroscalo di Ostia, per massacrare ed eliminare fisicamente il regista. Quella notte tutto era stato preparato.
Quella notte maledetta c’era la manovalanza, assoldata per chiudere definitivamente la partita.
Il 16 febbraio del 1976 vengono arrestati i fratelli Borsellino, Franco e Giuseppe, giovani delinquenti abituali, fascisti militanti, iscritti al Msi. Confessano ad un infiltrato, il carabiniere Renzo Sansone, di aver preso parte alla mattanza. Tirano in ballo Jhonny lo Zingaro, all’anagrafe Giuseppe Mastini, detenuto per aver ferito a morte, il 28 dicembre del 1975, Vittorio Bigi, autista di tram. Figlio di giostrai, un giovane delinquente molto pericoloso. Ha riportato, in seguito ad una sparatoria con la polizia, una brutta ferita alla gamba. È costretto a portare un plantare.
E un plantare verrà trovato nell’Alfa Gt di Pasolini, dopo il delitto.
Damiano Fiori, un detenuto sottoposto a programma di protezione, riferisce che tra il 1994 e il 1995, durante la detenzione, incontra Aldo Mastini, lo zio di Jhonny lo Zingaro, il quale confida che il nipote aveva materialmente partecipato all’omicidio di Pasolini assieme ad altre persone.
«Quando il suo corpo venne ritrovato, Pasolini giaceva disteso bocconi, un braccio sanguinante scostato e l’altro nascosto dal corpo.
I capelli impastati di sangue gli ricadevano sulla fronte, escoriata e lacerata. La faccia deformata dal gonfiore era nera di lividi, di ferite. Nerolivide e rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita della mano sinistra fratturate e tagliate.
La mascella sinistra fratturata. Il naso appiattito deviato verso destra. Le orecchie tagliate a metà, e quella sinistra divelta, strappata via. Ferite sulle spalle, sul torace, sui lombi, con il segno degli pneumatici della macchina sotto cui era stato schiacciato. Un’orribile lacerazione tra il collo e la nuca.
Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno.
Il fegato lacerato in due punti. Il cuore scoppiato».
“Mamma… Mamma”, gridava il poeta.
“Arruso, fetuso, sporco comunista”, gridavano i suoi assassini.
“Mamma… Mamma… Mamma…”.
Molti hanno sentito, molti hanno visto. Nessuno ha detto una parola.
Troppi misteri. Troppe incongruenze.
Lo scrittore stava lavorando a “Petrolio”, l’opera postuma con dei capitoli sottratti (Lampo sull’Eni). Pasolini aveva capito tutto, aveva letto un libro immediatamente ritirato (“Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato Presidente”).
Era un intellettuale. Aveva collegato i fatti: la morte del Presidente dell’Eni (il partigiano Enrico Mattei) “ucciso” con una bomba, la sparizione del giornalista Mauro De Mauro, le redini del potere in mano ad Eugenio Cefis (il suo vice, poi presidente dell’Eni e della Montedison, fondatore della Loggia P2).
E tutti gli altri “misteri” italiani.
Aveva le prove Pasolini? Cosa aveva compreso lo scrittore di “Ragazzi di Vita”?
Con la sua morte violenta iniziano i sapienti depistaggi nel Paese dei depistaggi: l’arresto anomalo di Pelosi, la confessione sbandierata ai quattro venti, il ruolo della destra italiana, i Marsigliesi (poi Banda della Magliana), le indagini inutili fatte dai carabinieri, le prove, le testimonianze buttate nel cesso.
La giustizia borghese non è interessata alla verità. Non si vuole fare luce sul quel massacro – studiato nei minimi particolari.
Troppe implicazioni, troppe collusioni, troppa merda intorno alla morte di Pier Paolo Pasolini.
È possibile sapere, in questo Paese senza memoria, cosa è successo quella maledetta notte?
Quanti anni ancora dobbiamo aspettare per comprendere la verità?
Chi ha paura di parlare e di raccontare la sua versione? Chi continua ad essere ricattato e minacciato in questo “Paese orribilmente sporco?”
Per la cosiddetta Giustizia Italiana Pier Paolo Pasolini rimane sempre quel frocio che se l’era andata a cercare.
Pasolini non è stato ammazzato perchè «frocio e basta».
«State attenti. L’inferno sta salendo da voi… non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere».
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