In Italia si continua a morire per amore. Ma non l’amore vero, quello che salva, protegge e costruisce. Si muore per un’idea distorta, malata, violenta del possesso. Si muore perché donne, perché libere, perché si dice di no. E a ogni nuovo femminicidio, il Paese si risveglia con l’ennesimo necrologio dell’ovvio: “mai più”, “un altro caso”, “servono leggi più dure”. Poi cala di nuovo il sipario.
Nel 2024, secondo i dati del Ministero dell’Interno, sono state uccise oltre 100 donne. Una ogni tre giorni. Quasi sempre per mano di uomini che conoscevano bene: mariti, compagni, ex fidanzati. L’assassino è spesso chi diceva di amarle. Un cortocircuito emotivo, culturale e giuridico che lascia dietro di sé figli orfani, famiglie spezzate e una società che fatica ancora a chiamare le cose col proprio nome.
Il femminicidio non è una tragedia privata. È un problema strutturale. Dietro ogni vittima c’è un sistema che non ha funzionato: denunce ignorate, segnali sottovalutati, assenza di protezione reale. Il Codice Rosso ha introdotto misure importanti. Ma le leggi non bastano se mancano formazione, sensibilità, cultura. Se nelle scuole non si parla di educazione sentimentale, se nei tribunali si colpevolizzano le vittime, se nei media si raccontano questi crimini come “raptus”, “gelosia”, “dramma della separazione”.
No. È violenza. È dominio.
È patriarcato. Non è un concetto astratto: è un sistema che educa gli uomini a dominare e le donne a subire. È una cultura che premia la virilità aggressiva e scredita l’autonomia femminile. È l’idea tossica che un uomo “vero” non venga lasciato, non venga contraddetto, non perda il controllo. È la radice invisibile ma potente di ogni “amore malato” che si trasforma in controllo, poi in violenza, infine in morte.
E il paradosso è feroce: le donne sono l’ossatura del nostro Paese, ma il loro valore è ancora messo in discussione. Sono madri, lavoratrici, insegnanti, infermiere, imprenditrici, attiviste, magistrate, ricercatrici. Reggono famiglie, scuole, ospedali, uffici, tribunali. Ma vengono pagate meno, promosse di rado, ascoltate con sospetto. A parità di ruolo, guadagnano in media il 20% in meno rispetto agli uomini. E se chiedono di contare, di dirigere, di decidere, c’è sempre qualcuno pronto a dir loro di “fare un passo indietro”.
Il loro lavoro di cura – dentro e fuori casa – è ancora invisibile, dato per scontato, non retribuito né riconosciuto. Come se fosse un destino, non una scelta.
Eppure, proprio loro – le donne – sono spesso le prime a lottare per i diritti di tutti. Sono in prima linea nei movimenti per la giustizia, nella difesa dell’ambiente, nella solidarietà sociale, nella cultura. E nonostante tutto, continuano a essere colpite, giudicate, cancellate. Quando non direttamente uccise.
E poi c’è il grande nemico invisibile: l’indifferenza. Una società che scrolla le spalle, che si abitua al sangue delle donne, è una società malata. Ogni donna uccisa è un fallimento collettivo. Non basta indignarsi sui social. Serve presenza, ascolto, coraggio. Serve rompere il silenzio. E serve farlo sempre, non solo quando il caso di turno finisce in prima pagina.
Cosa possiamo fare, allora? Scegliamo di non voltarci dall’altra parte. Pretendiamo l’educazione affettiva nelle scuole, fondi veri per i centri antiviolenza, pene certe e tempestive. Iniziamo a insegnare ai ragazzi che amare non significa possedere, e alle ragazze che dire “no” non è una colpa. Iniziamo a raccontare il femminicidio non come fatalità, ma come l’esito estremo di una cultura maschilista da disinnescare.
Il cambiamento non si costruisce solo nei palazzi, ma nelle case, nelle aule, nei bar, nei media. E anche – soprattutto – nelle parole. Le parole possono salvare, ma anche ferire, minimizzare, giustificare. Facciamo attenzione. Chiamare la violenza con il suo nome è il primo passo per combatterla.
Fermare il femminicidio non è solo una battaglia di genere.
È una battaglia di civiltà. Di umanità.
E non possiamo più permetterci di perderla.
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