Un decreto che parla la lingua della forza, ma tace su quella della giustizia sociale.
È questa la fotografia impietosa che emerge dall’ultimo Decreto-legge approvato dal Consiglio dei Ministri su proposta della Presidente Giorgia Meloni e dei ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto. Un testo corposo, che si muove tra parole d’ordine come “tutela”, “deterrenza”, “ordine pubblico” e “sicurezza urbana”, ma che rischia di affondare nel terreno scivoloso di una visione punitiva e autoritaria dello Stato.
Più carcere, più sorveglianza, meno diritti
Il provvedimento punta sulla repressione. Reati vecchi vengono inaspriti, nuove fattispecie penali nascono come funghi (come la “rivolta in carcere” o il blocco stradale equiparato a delitto), mentre le forze dell’ordine guadagnano poteri, strumenti e impunità.
Salgono le pene per chi manifesta, per chi occupa immobili, per chi si oppone (anche passivamente) a sgomberi o progetti contestati. Si abbassa la soglia della tolleranza, si alza quella della punizione.
Le madri detenute perdono la possibilità di rinviare l’esecuzione della pena, misura che fino a oggi era fondata sul principio umanitario della tutela dei minori. Ora anche una donna incinta può andare in carcere, se lo Stato valuta che possa commettere altri reati. Il tutto, ovviamente, in nome della “sicurezza”.
Diritto penale del nemico e sorveglianza sociale
Il decreto rafforza il cosiddetto “diritto penale del nemico”, che punisce in base all’identità e al sospetto più che al reato concreto. È così che le persone migranti, gli attivisti, i manifestanti, i detenuti e perfino chi riceve un semplice DASPO urbano diventano bersagli facili di uno Stato che sembra voler mostrare i muscoli più che risolvere i problemi.
Si introducono norme che trasformano i corpi sociali in soggetti da monitorare e contenere: bodycam obbligatorie, sorveglianza rafforzata, flagranza differita, uso più ampio della forza, nuove aggravanti ovunque. Il cittadino non è più parte attiva del vivere civile, ma potenziale colpevole da tenere sotto controllo.
Lotta alla povertà? No, criminalizzazione della marginalità
Si colpiscono duramente occupazioni abusive, accattonaggio minorile, truffe agli anziani. Misure che, più che affrontare la radice della povertà e dell’emarginazione, sembrano mirare a rendere invisibili i poveri, i fragili, i senza casa. Nessuna menzione su fondi per l’edilizia popolare, su progetti di accoglienza, su supporto reale alle vittime della marginalità.
Beni confiscati: gestione o vetrina?
Qualche intervento positivo appare nella parte sulla gestione dei beni confiscati, con norme per rendere più rapidi gli interventi e impedire il ritorno degli ex proprietari. Ma nulla si dice sulle risorse reali da destinare agli enti locali o sulle difficoltà di gestione delle realtà del terzo settore. Anche qui, più che costruire, si regola. E si taglia.
Un decreto senza visione sociale
In questo testo non si trovano misure reali contro la criminalità economica, non si affrontano le nuove povertà, non si parla di diritti, prevenzione, istruzione o reinserimento sociale. Il carcere viene irrigidito, i permessi limitati, i detenuti trattati come soggetti da contenere, non da recuperare. Il tutto mentre l’Italia è tra i Paesi europei con il più alto tasso di recidiva e sovraffollamento carcerario.
Uno Stato forte coi deboli, e debole coi forti
Il messaggio è chiaro: più repressione, meno diritti. Più ordine, meno democrazia. Più paura, meno speranza. Ma la sicurezza non nasce dalla militarizzazione del vivere civile. Nasce da una scuola che funziona, da un lavoro dignitoso, da un sistema giudiziario giusto, da una lotta vera alla mafia e alla corruzione, non da un manganello più pesante o una cella più piena.




