Cassino si è fermata. Non per una festa, non per una parata, ma per un silenzio che pesa più di mille parole. In piazza, sotto i piedi dei passanti, un foglio bianco su cui campeggia un messaggio diretto, scarno, eppure potentissimo: “Per Sara, per Ilaria, per tutte”. Accanto, una rosa rossa. E attorno, una corona di candele e scarpe rosse, simbolo ormai universale delle donne uccise dalla violenza maschile.
Le immagini raccontano tutto: il cartello semplice, scritto a mano, quasi con urgenza, come se qualcuno avesse sentito il bisogno impellente di lasciare un segno, di non far passare in silenzio l’ennesima tragedia. I nomi sono quelli di donne reali, vittime reali, ma potrebbero essere quelli di chiunque. Perché questa non è solo memoria: è denuncia. È dolore che non vuole diventare abitudine.
Nel cuore della città, sotto il cielo che si tinge di sera, Cassino ha eretto il suo piccolo altare civile. Le scarpe rosse, vuote, spezzano il passo. Le candele disegnano una mappa del lutto, un perimetro sacro che racconta una strage quotidiana troppo spesso derubricata a “dramma privato”. Non lo è. È un problema sociale, culturale, strutturale. E riguarda tutti, uomini compresi.
Al centro dell’installazione, il numero di emergenza antiviolenza campeggia come una boa in un mare di dolore. È un invito all’azione, un appello alla responsabilità collettiva. Non basta più indignarsi il 25 novembre: serve uno sguardo quotidiano, un impegno costante, un’educazione affettiva che cominci dai banchi di scuola.
Questa manifestazione, muta eppure fragorosamente eloquente, ricorda che ogni nome ha una storia, ogni storia una famiglia, ogni famiglia una ferita che non si rimargina.
Ma ricorda anche che la comunità può scegliere di non voltarsi dall’altra parte. Di esserci.

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