Ancora una volta, i nomi di Sara Campanella ed Ilaria Sula si aggiungono alla lunga e dolorosa lista di donne vittime di femminicidio. Purtroppo, sono solo alcuni dei tanti nomi che ogni anno riempiono le pagine di cronaca nera. Secondo i dati dell’Istat, nel 2023 in Italia sono state uccise 120 donne, più della metà delle quali per mano del proprio partner o ex partner.
La notizia fa il giro dei giornali, i talk show ne parlano, sui social esplodono i commenti. Ma poi? Passata l’onda emotiva, cosa resta? E soprattutto, cosa cambia? Perché se oggi leggiamo i nomi di Sara e Ilaria, ieri c’erano Giulia, Angelica, e tante altre.
Il problema non è mai solo l’ultimo femminicidio. È tutto quello che c’è prima. È il vuoto in cui crescono certi ragazzi, il modo in cui imparano a vivere le relazioni, il modo in cui nessuno insegna loro cosa sia l’amore e cosa, invece, sia possesso.
In Italia, parlare di educazione sessuale e affettiva nelle scuole è ancora un tabù. Si pensa che significhi solo parlare di sesso, quando in realtà significa parlare di rispetto, di limiti, di consenso, di gestione delle emozioni. Significa spiegare a un adolescente che l’amore non è controllo, che una relazione non è un contratto di proprietà, che un “no” non è un affronto, ma un diritto.
Eppure, nonostante le evidenze, le richieste, gli appelli degli esperti, nulla cambia. Continuiamo a lasciare i ragazzi in balia dei social, della pornografia come unica educazione sentimentale, di modelli distorti di mascolinità e femminilità. E poi ci stupiamo quando la fragilità diventa rabbia, la rabbia diventa violenza, e la violenza diventa cronaca nera.
Nel Regno Unito, hanno deciso di provare a fare qualcosa. È stata resa disponibile gratuitamente nelle scuole la miniserie Adolescence, che affronta senza filtri i temi del maschilismo, del bullismo, della pressione sociale, della violenza di genere. Un esperimento che ha generato reazioni contrastanti: c’è chi l’ha trovata necessaria e potente, chi invece la ritiene eccessiva, forse persino troppo cruda per i ragazzi.
Alcuni critici sostengono che scene così esplicite possano urtare la sensibilità degli adolescenti o persino influenzarli negativamente, mentre altri ritengono che siano proprio i giovani a dover vedere certe realtà senza filtri, perché vivono già in un mondo dove la violenza è quotidiana, dove le immagini di ragazze umiliate o molestate sono diffuse con un clic, dove un rifiuto può trasformarsi in persecuzione online.
Il vero problema, però, non dovrebbe essere se i ragazzi siano “pronti” a vedere queste storie ma perché queste storie esistano ancora. Perché i dati ci dicono che in Europa il numero di femminicidi non accenna a diminuire. Perché in Italia una donna viene uccisa ogni tre giorni da un uomo che spesso aveva giurato di amarla.
Le radici della violenza di genere affondano anche nel bullismo e nel cyberbullismo, che continuano a crescere in modo preoccupante. Secondo l’UNICEF, il 15% dei giovani italiani subisce episodi di bullismo o cyberbullismo, percentuale ancora più alta tra gli adolescenti più giovani.
È in quelle offese lanciate a cuor leggero, in quei gruppi WhatsApp dove si deride una ragazza perché si è lasciata andare troppo o troppo poco, nei messaggi in cui un “no” diventa un insulto. È lì che si formano le idee distorte su cosa sia una relazione sana. È lì che si inizia a normalizzare la violenza, a giustificare la sopraffazione, a minimizzare l’abuso.
Eppure, nonostante i dati allarmanti, nelle scuole italiane si continua a fare poco o nulla per affrontare questi temi. Gli sportelli psicologici, dove esistono, sono spesso considerati un servizio marginale, e l’educazione emotiva e relazionale viene relegata a qualche conferenza sporadica. I ragazzi crescono così, senza strumenti, senza confronto, senza una guida.
Non servono solo indignazione e dolore dopo ogni femminicidio. Servono cambiamenti concreti.
Servono sportelli psicologici stabili nelle scuole, non progetti spot che durano qualche mese. Servono insegnanti formati per riconoscere i segnali di disagio e violenza nei ragazzi. Servono programmi educativi che vadano oltre la biologia e parlino di rispetto, di gestione delle emozioni, di modelli relazionali sani.
Bisogna smetterla di considerare il maschilismo e la violenza di genere come un problema “di qualcun altro”. È un problema di tutti, perché tutti, nel nostro piccolo, possiamo scegliere come parlare, come educare, come intervenire.
Ogni volta che si minimizza la gelosia morbosa di un ragazzo definendola “romantica”. Ogni volta che si insegna a una ragazza a “stare attenta” invece di insegnare ai ragazzi a rispettare. Ogni volta che si ridicolizza un adolescente fragile, dicendogli che “un vero uomo” non piange. Ogni volta che si giustifica l’aggressività maschile con un “sono ragazzi”.
Tutte queste cose contribuiscono a creare il mondo in cui viviamo. Un mondo dove due giovani donne, che avevano tutta la vita davanti, possono essere uccise perché qualcuno non ha accettato che non gli appartenessero.
Se non iniziamo a cambiare adesso, se continuiamo a girarci dall’altra parte, continueremo a scrivere questi articoli. A piangere nomi nuovi. A chiederci, ogni volta, perché sia successo di nuovo.
Ma la verità è che lo sappiamo già. Eppure, non facciamo abbastanza per impedirlo.