Non è emergenza, è sistemico. Nel primo trimestre del 2025, secondo i dati del Ministero dell’Interno, in Italia sono state uccise 17 donne, di cui 11 vittime di femminicidio. Una statistica racconta una verità scomoda: la violenza contro le donne non arretra.
Numeri che parlano di volti. Dietro ogni cifra c’è una storia. C’è una donna che aveva chiesto aiuto e non è stata creduta, una che voleva separarsi e non glielo hanno permesso, una che viveva nell’ombra della paura. L’omicida è quasi sempre qualcuno che conosceva bene la vittima: il marito, il compagno, l’ex, il familiare. Una vicinanza che uccide.
Un Paese che sa e non agisce abbastanza. I dati raccolti parlano chiaro: nonostante campagne, leggi e proclami, la cultura patriarcale e la violenza di genere restano profonde, sistemiche, difficili da estirpare. A mancare non sono solo i fondi per i centri antiviolenza o la protezione delle vittime, ma una reale presa di coscienza collettiva. La retorica del “raptus” è ancora presente nei titoli dei media generalisti. Il linguaggio resta spesso sbagliato, colpevolizzante. Le sentenze talvolta indulgenti. E lo Stato, pur con passi avanti, si muove troppo lentamente.
“Mai più sola” non può essere solo uno slogan. Servono più risorse, più formazione per le forze dell’ordine e i magistrati, più educazione nelle scuole, più ascolto alle donne. Perché il femminicidio non è un fatto privato, non è gelosia, non è amore malato.
È il volto estremo e criminale di una società ancora profondamente maschilista.
Femminicidio è una parola che grida giustizia. Ogni volta che si minimizza, si nega, si distorce, si compie una seconda violenza. Ogni volta che una donna viene lasciata sola, qualcuno sceglie di non vedere.
E allora forse non è solo colpa di chi ha premuto il grilletto o brandito un coltello. È di un intero sistema che ancora oggi permette tutto questo.
Nel 2025. Ancora.
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