C’è una frase che resta incollata nella memoria, più di qualsiasi notizia, più di ogni bollettino ufficiale. È la voce di una bambina, appena sopra un sussurro, tra le braccia della madre: «Mi hanno colpita». Non serve sapere altro. Quel frammento di umanità, spezzata, racconta tutto. Racconta la guerra meglio di qualsiasi analista, fotografo o generale.
Il bombardamento su Sumy, città dell’Ucraina nordorientale, ha portato via le vite di civili inermi, tra cui bambini. Le immagini giunte dopo l’attacco sono devastanti: edifici polverizzati, sirene che si rincorrono nel vuoto, occhi impauriti che cercano volti familiari tra le rovine. E poi loro, i più piccoli, colpiti nel cuore della vita, nel tempo che doveva essere gioco, scuola, carezze.
Eppure, nonostante l’evidenza del dolore, nonostante le urla e il sangue, le parole del mondo sembrano appese a un filo di esitazione. Il presidente americano Donald Trump ha parlato di un «errore». Un errore. Come se un ordigno potesse scendere dal cielo senza una volontà. Come se la morte potesse essere un inciampo. Salvini, in Italia, ha scelto toni diplomatici, come spesso fa quando il tema tocca la Russia, cercando di evitare condanne nette. E non è il solo: tanti leader, in queste ore, preferiscono il silenzio o una cautela che suona come paura. Paura di sbilanciarsi, paura di urtare equilibri internazionali già fragili, paura — forse — di perdere consenso.
Ma dove finisce la diplomazia e dove inizia l’indifferenza?
È questa la domanda scomoda che dovremmo porci. Davanti alla morte dei bambini, davanti a una madre che urla in un pronto soccorso improvvisato, davanti a una scuola diventata cenere, che cosa resta da mediare?
Certo, la geopolitica è complessa. Non si possono ignorare le responsabilità storiche, le tensioni internazionali, i giochi di potere tra NATO, Russia, Stati Uniti, Cina. Ma la verità è che stiamo progressivamente perdendo il senso delle priorità. E mentre i governi si accapigliano sul gas, sulle sanzioni, sulle parole da scegliere nei comunicati stampa, nelle strade di Sumy si contano le vittime con le mani sporche di calcinacci.
La guerra in Ucraina è iniziata nel 2014 ma l’invasione russa del 2022 ha spalancato un abisso che sembra non volersi chiudere. A più di due anni dall’inizio dell’offensiva su larga scala, il conflitto continua a divorare vite e città, a generare profughi, orfani, mutilati. E noi, spettatori più o meno coinvolti, sembriamo assuefatti. Come se la guerra fosse diventata rumore di fondo.
Ma il dolore non si normalizza. Non si può normalizzare.
Quel video della bambina ferita è un pugno nello stomaco. Ricorda che la guerra non è fatta solo di confini, alleanze, interessi economici. È fatta di persone. Di sogni interrotti. Di letti rimasti vuoti. Di piccoli zaini colorati coperti di polvere.
E allora sì, è difficile prendere posizione. Perché farlo significa schierarsi, perdere consensi, mettere in discussione relazioni strategiche. Ma è proprio nei momenti difficili che si misura il coraggio di una leadership. Saper chiamare le cose col loro nome. Denunciare l’ingiustizia. Difendere la vita, sempre, soprattutto quella più fragile.
Non è più tempo di equilibri codardi. Non possiamo più accettare che la realpolitik venga prima dell’umanità. Il mondo ha bisogno di voci chiare, di condanne nette, di scelte etiche. Non di silenzi imbarazzati o parole neutre che profumano di convenienza.
Sumy ci ricorda tutto questo. Con la sua polvere. Con i suoi pianti. Con il corpo di una bambina che sussurra: «Mi hanno colpita».
E noi, che possiamo ancora parlare, non possiamo restare muti.
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