Stragi nazifasciste in Italia: 23.000 vittime, una verità negata per decenni
La penetrazione tedesca in Italia, avviata nell’estate del 1943, trasformò il nostro Paese in uno dei fronti più sanguinosi della Seconda guerra mondiale. Le popolazioni civili si trovarono, letteralmente, “tra due fuochi”, come scrisse lo storico Tommaso Baris: tra l’occupazione nazista e l’avanzata degli Alleati, travolte da una nuova e brutale espressione della guerra totale.
A partire dal luglio 1943, le forze tedesche – e spesso anche quelle fasciste italiane – diedero il via a una stagione di violenze sistematiche, con massacri indiscriminati, torture, fucilazioni, rastrellamenti e deportazioni. Le vittime? Civili inermi, partigiani, donne, bambini, minoranze religiose, ex prigionieri di guerra.
Secondo l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, frutto di una ricerca promossa da ANPI e INSMLI e finanziata dal governo tedesco, si contano oltre 23.000 vittime in 5.550 episodi di violenza tra il luglio 1943 e il maggio 1945. Non solo le tristemente note Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema o Marzabotto: le stragi furono capillari e sistematiche, perpetrate da reparti della Wehrmacht, delle SS e dalle milizie della Repubblica Sociale Italiana.
Il fenomeno, inoltre, non si limitò al territorio nazionale. Anche i militari italiani catturati dopo l’armistizio dell’8 settembre furono oggetto di violenze e rappresaglie in Grecia, Albania, Germania e nell’Est Europa.
Ciò che rende questo capitolo ancora più drammatico è il sistematico insabbiamento giudiziario delle responsabilità. I fascicoli d’indagine relativi alle stragi vennero nascosti negli archivi della Procura militare di Roma, in quello che sarebbe stato poi definito “l’armadio della vergogna”. Un atto gravissimo, scoperto solo nel 1994, che impedì per decenni qualsiasi azione legale nei confronti dei responsabili.
Secondo numerose inchieste e commissioni parlamentari, la decisione di occultare quei documenti fu politica: nell’Italia della Guerra Fredda, processare i criminali nazisti avrebbe compromesso i rapporti con la Germania Ovest, alleata strategica del blocco occidentale. Ma c’era anche un timore implicito: richieste di giustizia per i crimini tedeschi avrebbero riacceso i riflettori anche sui crimini coloniali e di guerra commessi dagli italiani nei Balcani, in Grecia, in Africa.
Solo alla fine degli anni ’90 e nei primi anni 2000, grazie al lavoro della Procura Militare di La Spezia e poi del Tribunale Militare di Roma, si è cominciato a celebrare processi ai responsabili di alcune tra le stragi più efferate – spesso con imputati contumaci. Tra questi, anche la sentenza per la strage di Cefalonia, conclusasi solo nel 2013.
Ma molti altri casi sono stati archiviati in fretta, senza mai arrivare in aula. La memoria storica è ancora ferita, e il bilancio morale – oltre che giudiziario – resta aperto.
Ricordare le stragi nazifasciste non è solo un dovere storico. È una questione di giustizia, di dignità, di responsabilità collettiva. Oggi, grazie all’Atlante delle stragi, è possibile consultare ogni episodio, con dati, mappe, fonti e testimonianze: un lavoro prezioso che restituisce nomi, volti e storie a chi per troppo tempo è stato cancellato.
L’Italia deve fare i conti con la propria memoria incompiuta. La verità, anche quando è scomoda, è il primo passo verso una democrazia matura.
“Non c’è pace senza memoria. Non c’è giustizia senza verità.”
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