La lingua nazista è caratterizzata – come del resto tutte le lingue del potere totalitario e dell’oppressione – da estrema povertà lessicale, frasi fatte, luoghi comuni, uso di slogan volgari (atti a divenire virali), metafore grossolane e soprattutto REITERAZIONE CONTINUA, OSSESSIVA.
Parole semplici e volgari, ripetute ossessivamente, come dosi omeopatiche di veleno ingerite all’insaputa, corrompono la politica e si impongono alle masse, che le recepiscono meccanicamente e inconsapevolmente.
Così dal “me ne frego” fascista, al celodurismo bossiano (“la lega ce l’ha duro“), al berlusconiano “giudici comunisti“, ai più recenti slogan di Salvini: “prima gli italiani“, “porti chiusi“, la “politica del fare“, “Flat Tax”, “Napoli colera”, etc.
Così la “donna, madre, cristiana”, i “giudici comunisti”’ “Difendere i confini, difendere la famiglia, difendere la nostra identità”, “io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana”, “f u n z i o n e r a n n o”.
Lo stile è caratterizzato da uso di anafore e ripetizioni ritmiche, triadi retoriche (serie di tre frasi simili), contrasti netti (noi/loro, cittadini/sudditi, orgoglio/vergogna), linguaggio semplice, diretto, emotivo.
Lo stile è sempre quello: quello dell’imbonitore, del venditore di pentole, del tifoso della curva sud.