Libero Grassi non era un pazzo, come disse lui stesso in una celebre intervista televisiva con Michele Santoro l’11 aprile 1991: «Io non sono pazzo: non mi piace pagare. È una rinuncia alla mia dignità di imprenditore». Quelle parole, limpide e coraggiose, pronunciate in un’Italia piegata dal potere mafioso, lo avrebbero consegnato alla Storia.
Il suo nome, oggi, è simbolo di resistenza civile e di lotta alla mafia. La sua morte, il 29 agosto 1991, non fermò la voce che aveva acceso: la trasformò in un grido collettivo contro il racket e la violenza criminale.
Nato a Catania il 19 luglio 1924, Libero Grassi si trasferì bambino a Palermo. Il suo nome era già un programma di vita: i genitori lo scelsero in memoria del socialista Giacomo Matteotti, assassinato dal fascismo. La sua famiglia era antifascista e lui stesso maturò presto un’avversione al regime.
Dopo gli studi in Scienze politiche a Roma e in Giurisprudenza a Palermo, scelse di non seguire la carriera diplomatica, ma di proseguire l’attività del padre nel commercio e nell’imprenditoria. Negli anni Cinquanta aprì una fabbrica di cuscini a Gallarate e successivamente, tornato in Sicilia, fondò la Sigma, azienda tessile di pigiameria maschile che avrebbe dato lavoro a un centinaio di dipendenti fino al 1991.
Uomo di cultura e passione civile, fu tra i fondatori del Partito Radicale nel 1955 e successivamente militò nel Partito Repubblicano, impegnandosi nelle campagne per il divorzio e per l’interruzione volontaria di gravidanza. Sempre schierato dalla parte dei diritti e della legalità, non rimase mai spettatore.
Quando Cosa Nostra bussò alla porta della sua azienda, Libero Grassi scelse di non chinare il capo. Le telefonate minacciose di un fantomatico “geometra Anzalone”, emissario dei boss di Resuttana, non lo intimidirono. Anzi: le denunciò pubblicamente.
Il 10 gennaio 1991, sul Giornale di Sicilia, pubblicò la famosa lettera intitolata Caro estortore, un manifesto di dignità civile:
«Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere. Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi a chiedere altri soldi, una retta mensile. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui».
Era il primo imprenditore a Palermo ad esporsi in maniera così diretta. Collaborò con la polizia, denunciò i suoi estorsori, rifiutò persino una scorta personale. Ma la sua scelta lo isolò: Assindustria e Sicindustria lo abbandonarono, accusandolo di volersi fare pubblicità.
La mattina del 29 agosto 1991, alle 7:30, Libero Grassi venne ucciso a colpi di pistola mentre andava a piedi in fabbrica. Palermo si svegliò nel silenzio spezzato dal sangue. Ai funerali, a cui partecipò anche il presidente della Repubblica Cossiga, il gesto del figlio Davide – le dita alzate in segno di vittoria sopra la bara – divenne immagine indelebile.
Dietro l’omicidio c’era la Cupola di Cosa Nostra, che volle eliminare Grassi come monito contro altri imprenditori intenzionati a ribellarsi. Il killer fu Salvatore Madonia, detto “Salvino”, del clan di Resuttana, condannato poi all’ergastolo insieme ai mandanti dell’organizzazione mafiosa.
La sua morte scosse l’opinione pubblica italiana e internazionale. Qualche mese dopo, nel 1992, venne approvata la legge anti-racket 172, che istituiva un fondo di solidarietà per le vittime di estorsione.
Sua moglie, Pina Maisano Grassi, raccolse il testimone della sua lotta: nonostante le minacce, continuò a battersi al fianco delle associazioni anti-racket e venne eletta senatrice con i Verdi.
Oggi il suo nome vive nella memoria collettiva: a lui è intitolato un istituto tecnico commerciale a Palermo, mentre film, documentari e libri ne hanno raccontato la vicenda.
A distanza di più di trent’anni, la storia di Libero Grassi resta un faro per chi crede in un’economia libera dal pizzo e in una società capace di dire no alla mafia. La sua voce non è stata spenta dai proiettili, perché la memoria e il coraggio hanno radici più forti della paura.
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