C’è un momento, nei territori che hanno imparato a convivere con l’ombra lunga della camorra, clan Russo, clan Licciardi, Nolano, Nola, estorsioni, appalti truccati, varianti urbanistiche, voto di scambio, infiltrazioni mafiose, in cui il silenzio si incrina. Succede all’improvviso, quasi sempre grazie a un gesto singolo, umano, fragile e insieme potentissimo: una denuncia, un “no” pronunciato quando farlo significa esporsi.
È iniziato così anche nel Nolano, dove la grande operazione di questi giorni, 44 arresti tra carcere e domiciliari, un mosaico di accuse che attraversa estorsioni, gestione illecita del gioco, varianti urbanistiche sospette e perfino scambi elettorali, non è soltanto un fatto di cronaca. È la fotografia nitida di un sistema che da anni viveva sotto pelle, come una malattia che tutti sanno di avere ma che nessuno trova il coraggio di pronunciare.
A firmare il colpo è la Direzione Distrettuale Antimafia, DDA Napoli, carabinieri, operazione antimafia Nolano, affiancata dal lavoro scrupoloso dei carabinieri. A interpretarlo, in conferenza stampa, è il procuratore Nicola Gratteri, che con la sua lucidità racconta ciò che per troppo tempo si è preferito non vedere: il clan Russo, storicamente radicato nella zona, è tornato a intrecciare alleanze con i Licciardi. Un riequilibrio di potere, un ritorno di fiamma criminale che cambia gli equilibri di mezzo territorio e che spiega la pervasività delle ingerenze emerse dalle indagini.
Ma la parte più grave non è solo l’espansione criminale. È che tutto — affari, bar, immobili, sale scommesse, appalti, preferenze politiche — si intreccia con il mondo che dovrebbe garantire legalità. E quando politica e camorra cominciano a parlarsi, a scambiarsi favori, a condividere convenienze, allora non è più questione di clan: è questione di democrazia, legalità, anticorruzione, infiltrazioni nella politica locale.
In questa storia, come in tutte le storie che segnano davvero un territorio, c’è un nome che pesa più degli altri — anche se non serve riportarlo qui. È il nome di una dipendente del Comune di Nola che, davanti a pressioni, richieste “anomale”, insistenze su pratiche urbanistiche e varianti, ha scelto di denunciare. Ha messo nero su bianco ciò che aveva davanti agli occhi: pressioni, condizionamenti, richieste sospette, tentativi di orientare scelte amministrative a beneficio dei clan.
E lo ha fatto senza garanzie, senza certezze, senza rete.
È stata lei la crepa nel muro di gomma dell’omertà.
Lei la miccia che ha fatto detonare un sistema.
Lei il volto nascosto ma centrale di questa storia.
E non è un dettaglio, non è un atto scontato.
Nelle stanze dei municipi della provincia il confine tra ciò che è lecito e ciò che “si fa perché si è sempre fatto” è sottile, elastico, spesso sfumato. Chi dice di no viene isolato, additato, scoraggiato. Eppure questa persona ha aperto un varco: ha raccontato, documentato, insistito. La sua denuncia è diventata il primo mattone di un edificio investigativo che, tempo dopo, ha mostrato quanto fosse marcio il terreno sotto i piedi.
È una lezione civile, prima che giudiziaria: i clan possono essere potenti, ma spesso basta un individuo coraggioso per far franare una montagna che sembrava eterna.
Se oggi parliamo di 44 arresti, di intercettazioni, di reticolati mafiosi e di politica che entra a gamba tesa dove non dovrebbe, è perché una singola lavoratrice del Comune ha scelto la legalità. E la legalità, in territori come il nostro, non è mai neutra: è un atto di coraggio.
Gli investigatori hanno ricostruito un sistema che non si limita alla classica estorsione. È qualcosa di più sottile, capillare, moderno: il controllo del gioco d’azzardo, sale scommesse, affari mafiosi, la gestione di sale scommesse, l’ingerenza in compravendite immobiliari, le pressioni sugli imprenditori, l’imposizione di ditte “amiche” nei cantieri. Un’economia parallela che non spara, non fa clamore, non lascia cadaveri per strada, ma soffoca.
E poi c’è il nodo politico. Che è quello più scomodo, il più rimosso, il più temuto.
Le indagini parlano di un sistema di favori e di influenza in vista delle regionali, di contatti che puntano a orientare preferenze, a garantire appoggi, a mobilitare pacchetti di voti. Non servono le pistole quando si controllano i seggi. Non serve la violenza esplicita quando l’intimidazione è culturale, ambientale, sottintesa. E quando la camorra riesce a entrare nella rete che sostiene, consiglia e finanzia la politica locale, il danno non è solo penale: è democratico.
Sono anni che in Campania si ripete che “i clan non sono più quelli di una volta”. È una frase che consola, una specie di mantra. È anche una bugia. Non sparano perché…
Un’operazione così vasta non nasce nel vuoto. I clan non prosperano senza complicità, senza appoggi silenziosi, senza porte che si aprono, senza convenienze. È ora che la politica locale — quella che governa, quella che si candida, quella che decide — risponda pubblicamente.
Non basta dire “abbiamo fiducia nella magistratura” o prendere le distanze ad arresti avvenuti.
Non basta indignarsi quando la stampa racconta ciò che si sapeva da tempo.
Le indagini — se davvero saranno portate avanti fino in fondo — dovranno tirare fuori i nomi.
Non solo dei criminali, non solo degli intermediari, ma di chi li ha legittimati: amministratori, tecnici, figure istituzionali che hanno usato i clan come scorciatoia per ottenere consenso, per velocizzare pratiche, per consolidare il proprio potere.
Perché il punto è questo: la camorra non entra nelle istituzioni se qualcuno non glielo permette.
Per capire la portata di ciò che sta accadendo, bisogna ricordare da dove arrivano questi clan.
Il clan Russo, nato tra Nola, Saviano, Marigliano e l’area vesuviana, ha sempre avuto due anime: una militare e una imprenditoriale. Nel tempo si è specializzato nel controllo delle attività commerciali, nell’edilizia, nel movimento terra, nel gioco d’azzardo.
È un clan che dialoga più che sparare, che compra più che minacciare, che penetra dove c’è debolezza amministrativa.
Dall’altra parte, i Licciardi, storica famiglia di Secondigliano, vertice dell’Alleanza di Secondigliano, hanno influenzato per decenni non solo Napoli ma anche la provincia, tessendo rapporti e alleanze ovunque ci fosse un business.
L’idea che questi due gruppi siano tornati a parlarsi, a collaborare, a spartirsi affari e voti, deve far paura. Significa che il sistema è vivo, intelligente, ramificato.
Ma significa anche una cosa importante: se sono tornati a muoversi così apertamente, allora le crepe nel loro potere non erano più piccole come sembravano. Qualcosa stava scricchiolando. Qualcuno li stava disturbando. Qualcuno li ha denunciati.
È il segnale che il territorio può essere più forte di loro, se lo vuole davvero.
Questa indagine non riguarda solo Nola.
Non riguarda solo un ufficio comunale o una manciata di attività commerciali.
Riguarda l’intero quadrante dell’area nolana e i comuni vicini:
San Paolo Belsito, Camposano, Cicciano, Roccarainola, Saviano, Cimitile, Marigliano, Scisciano, San Vitaliano, territori in cui i clan hanno sempre avuto intermediari, referenti, “amici degli amici”, imprenditori messi lì a fare da ponte tra criminalità e politica, tra affari e voti, tra silenzi e convenienze.
Se questa operazione deve significare qualcosa, allora deve essere questo: scoperchiare tutto.
Tutto ciò che si finge normale.
Tutte le complicità locali.
Tutte le alleanze che hanno permesso ai clan di non scomparire.
Non è più il tempo dei mezzi discorsi.
Non è più il tempo dei “si è sempre fatto così”.
Non è più il tempo di ignorare ciò che tutti sanno.
C’è una domanda che aleggia da anni nel Nolano, sussurrata nei bar e nelle stanze dei consigli comunali: «Ma tanto a chi importa?».
È la frase più pericolosa che un territorio possa pronunciare.
È la resa senza condizioni.
E invece questa operazione dice che importa eccome.
Importa a chi ha denunciato.
Importa a chi ha raccolto quella denuncia.
Importa ai magistrati, agli investigatori, ai cittadini che oggi possono respirare un po’ più forte.
Ma non basterà. Non basta mai.
Servono:
– tutele vere per chi denuncia;
– controlli ferrei sugli appalti e sulle varianti urbanistiche;
– trasparenza totale sui rapporti tra politica e imprenditoria;
– percorsi di protezione per dipendenti pubblici che subiscono pressioni;
– un patto civile tra i cittadini che dica chiaramente: “chi tocca la democrazia, tocca tutti noi”.
La repressione è il primo passo, non l’ultimo.
Si entra ora in una fase delicatissima.
Le regionali sono alle porte e la tentazione, per alcuni, sarà quella di minimizzare, di dire che si tratta di “casi isolati”, di “situazioni circoscritte”.
Non è così.
Questa inchiesta è un faro acceso proprio sui meccanismi che generano consenso deviato, clientelismo, pacchetti di voti costruiti nell’ombra.
Se davvero si vuole cambiare rotta, servono candidati che rifiutino qualunque appoggio ambiguo, amministratori che rendano pubblici i propri rapporti con imprenditori del territorio, cittadini che non cedano alla tentazione di delegare tutto al “sistema”.
È il momento di scegliere: o si sta dalla parte della legalità, o dalla parte dell’opacità. Non esistono zone grigie.
Il Nolano oggi vive un passaggio storico. E ogni passaggio storico ha un prezzo: il coraggio di guardare in faccia la verità.
La verità è che la camorra non si è mai dissolta; ha cambiato pelle.
La verità è che la politica locale non è stata impermeabile.
La verità è che un territorio non si salva se continua a chiamare “normalità” ciò che normale non è.
Questa operazione non è un punto d’arrivo.
È un inizio.
Un’occasione rara.
E sì, rappresenta un barlume di speranza.
Un primo passo verso una resa dei conti che era necessaria da anni, forse da decenni.
Quel barlume ora esiste: sta al territorio decidere se alimentarlo o spegnerlo.
Perché quando il silenzio si incrina,
quando una sola persona trova il coraggio di parlare,
quando un sistema apparentemente invincibile inizia a creparsi,
allora qualcosa — finalmente — può cambiare davvero.
Camorra e voto nel Nolano: il clan Russo ancora attivo nonostante gli arresti





