Devo, con amarezza, confermare quanto ho scritto in altre occasioni: viviamo una stagione in cui è diventata estrema la confusione dei linguaggi. Le parole, che dovrebbero chiarire, spesso confondono; e la confusione, quando si fa abitudine, diventa terreno fertile per ogni abuso.
Molti dichiarano di ispirarsi ai principi liberali, ma nei fatti propongono ogni giorno il volto di un populismo demagogico, autoritario e moralmente povero. È un paradosso fin troppo riconoscibile: si invoca la libertà mentre si prepara la gabbia; si parla di popolo mentre si costruisce il branco.
In questo clima, una nuova era barbarica guadagna consensi sempre più vasti, calpestando gli elementi basilari di ogni civiltà giuridica. Si confonde ciò che è pubblico con recinti tribali, con slogan che suonano come una serratura messa alla coscienza: “padroni a casa nostra”. Ma quando la casa è la cosa pubblica, chi si proclama padrone sta già dicendo che gli altri sono ospiti e spesso nemmeno graditi.
Si diffonde anche un’idea distorta di libertà: non libertà come responsabilità, ma libertà come licenza di autoconferirsi ogni permesso, anche illecito. Qui attecchisce la cultura mafiosa: quella che trasforma la regola in ostacolo, lo Stato in bancomat, l’interesse comune in bottino.
Così diventa “normale” frodare il fisco, diventa “furbo” dilapidare risorse pubbliche per vantaggi privati, diventa “inevitabile” piegare il bene comune ai desideri del singolo o del clan. A fondamento di tutto questo c’è un fatto duro, essenziale: una estesa minorità etica e civile.
E allora sì: occorre risvegliare le coscienze alla serietà dell’esperienza morale. Non per moralismo, ma per sopravvivenza democratica. Serve ricordare che la comunità viene prima dell’individuo, non per schiacciarlo, ma per renderlo davvero libero. Perché si diventa moralmente adulti emergendo da una comunità di vita, imparando il limite, la cura, la reciprocità.
Al fondo della questione morale, infatti, c’è la relazione tra le persone: come ci guardiamo, come ci riconosciamo, come ci vincoliamo a una promessa comune. Se quella relazione marcisce, marcisce tutto: istituzioni, economia, linguaggio, futuro.
Oggi soprattutto la politica deve tornare a essere l’impegno di chiunque sia persona moralmente autonoma: non il mestiere del cinismo, non l’arte della propaganda, non la gestione di fedeltà tribali. Politica come responsabilità, come scelta quotidiana di non diventare sudditi, né servi volontari.
E qui la frase finale non è retorica: ciascuno di noi, se vuole, può diventare un novello Socrate. Non per fare il filosofo in piazza, ma per fare ciò che lui faceva davvero: porre domande scomode, smascherare le parole vuote, pretendere coerenza, tenere acceso, anche nel vento, il piccolo fuoco della coscienza.





