La parola di cui vorrei parlarvi oggi è “radici”. L’ho scelta per la sua poliedricità. Un termine il cui uso spazia dalla botanica alla medicina, dalla filosofia al linguaggio comune. Un vocabolo che evoca la categoria temporale del passato ma che nello stesso tempo proietta la vita nel futuro. Pensiamo al suo significato in botanica: la radice è quell’elemento della pianta che penetrando nel terreno acquisisce dalla terra il nutrimento, la linfa con cui la pianta riesce a crescere e svilupparsi verso l’alto, nel suo slancio verso il cielo. La radice diventa quindi elemento essenziale per la vita.
Se invece analizziamo la sua accezione filosofica, la radice è il principio o la causa di tutte le cose, una sorta di Big Bang dal quale origina la vita, intesa nel suo più ampio significato. E ritorna, come per le piante, l’essenzialità della radice nello sviluppo della vita.
Proviamo allora a traslare questi concetti sull’essere umano, sulla caducità della sua vita terrena, dei suoi rapporti interpersonali, su un piano più basilare. In cosa le radici si materializzano? Quale impatto hanno le radici sulla nostra vita e sulla rete di rapporti che quotidianamente intessiamo intorno a noi?
Mi sono interrogata su questi aspetti proprio in questi giorni di distanziamento sociale, che mi ha portata forzatamente a mantenere una necessaria distanza con le mie radici, con la terra e la famiglia cui appartengo. Molti, come me, in questo periodo staranno vivendo questo distacco coatto dalla propria terra e dalla propria gente. Ed è proprio questo distacco forzato che ci fa comprendere ancora di più l’importanza delle radici, di quell’organo che affonda nella madre terra per darci la forza e la vita stessa.
Allora cosa sono le radici per ognuno di noi? Sono il bagaglio identitario che ci portiamo dietro, sono uno zainetto nel quale sono riposti usi, consuetudini, modi di dire, costumi della nostra gente, retaggi di un passato, anche ancestrale, che ci portiamo dentro, stampato nel DNA, che poi evolve in bagaglio culturale, laddove per culturale si intende una sorta di targa identificativa di un contesto o gruppo sociale di appartenenza. Ma sono anche quella parte di noi che ci permette di elevarsi verso il cielo, come i rami degli alberi sorretti dalle profonde radici. Quanto più riusciamo a riconoscere e rispettare le nostre radici, preservandole e nutrendole, tanto più riusciremo a crescere e a sviluppare il nostro essere. Elevarsi verso il cielo è metaforicamente avvicinarsi agli altri, ai diversi da noi. Ecco quindi che le radici si fanno, in qualche modo, veicolo per la contaminazione e il mescolamento degli esseri umani.
Pensando alla parola di oggi, mi sono ricordata di una miniserie televisiva andata in onda a fine anni ’70, il cui titolo era proprio “Radici”, tratta dall’omonimo libro di Alex Haley. La storia di Kunta Kinte, un africano catturato e ridotto in schiavitù nel nuovo mondo, è emblematica dell’importanza del preservare le proprie origini. Anche nella sua condizione di schiavo, Kunta riesce a tramandare ai suoi figli e discendenti le tradizioni della sua terra di origine, quell’Africa così lontana e ormai irraggiungibile, nel tentativo di preservare la memoria della propria storia.
Le similitudini fra la storia di Kunta Kinte e quelle di molti uomini e donne che arrivano in Europa, moderni schiavi di un sistema di potere e profitto che ne sfrutta le già misere esistenze, sono fin troppo facili. Eppure, proprio guardando a questi nuovi Kunta Kinte possiamo imparare il rispetto delle reciproche radici. Perché non ci sono popoli migliori di altri, non ci sono persone migliori di altre. Siamo tutti figli della stessa Terra, ci abbeveriamo e nutriamo dalla medesima fonte. La difesa delle proprie origini deve diventare momento di arricchimento solo e soltanto se condivisa e se mescolata in una contaminazione che davvero ci mette tutti sullo stesso livello.
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2020-04-15 15:59:05
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