Gli ultimi mesi sono stati a dir poco turbolenti, specialmente sul fronte dell’amministrazione della giustizia e della lotta alle mafie. L’Italia che si avvia a mettersi alle spalle l’emergenza sanitaria e desidera «tornare alla normalità» appare così proiettata verso un possibile futuro, cancellando il passato e tutto quello che è già successo. Sono passati tre mesi dalle rivolte nelle carceri, ancor meno dalla contestata circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria da cui è partita la catena di scarcerazioni facili per boss e affiliati alle organizzazioni mafiose. Nel pieno della bufera mediatica su queste scarcerazioni, l’intervento telefonico nella trasmissione televisiva «Non è l’Arena» condotta su La 7 da Massimo Giletti di Nino Di Matteo che ha raccontato cosa accadde due anni fa quando sembrava possibile potesse essere scelto lui come capo del DAP e invece fu designato Francesco Basentini.
Nino Di Matteo era stato chiamato in causa durante la discussione dal parlamentare europeo Dino Giarrusso (Movimento 5 Stelle) che aveva fatto riferimento ad una possibile «trattativa» tra lo stesso magistrato antimafia e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla designazione del capo del DAP. Dopo l’intervento di Di Matteo in diretta lo stesso Giarrusso, apparso visibilmente stupito e spiazzato, disse di voler chiedere scusa e che non conosceva i fatti di due anni fa. Ma, complice la netta ostilità mediatica contro i magistrati antimafia e non appartenenti a consorterie e cordate di potere, su Di Matteo nelle settimane successive si è scatenata un' assurda canea mediatico-politica, come abbiamo già raccontato in queste settimane. Intanto, dopo le scarcerazioni, nello stesso Dap l’intero vertice è stato rinnovato dopo la catena di dimissioni partita da Basentini.
L’ultima bufera mediatica ha investito i vertici della magistratura associata italiana e il Consiglio Superiore della Magistratura con la pubblicazione dei messaggi telefonici tra Luca Palamara, alcuni rappresentanti politici e altri magistrati. Il quadro che emerge appare tutt’altro che edificante in una commistione tra alti magistrati, partiti politici (dai renziani Cosimo Ferri e Luca Lotti all’ex vice presidente del Csm in quota PD Giovanni Legnini all’attuale vice presidente sempre in quota PD David Ermini al membro laico del Csm in quota 5 Stelle Fulvio Gigliotti) a rappresentanti dei vertici del calcio italiano e tanti altri. Luca Palamara è stato espulso dall'Associazione Nazionale Magistrati per «gravi violazioni del codice etico» e, immediatamente dopo la decisione, ha dichiarato che non farà da unico capro espiatorio e ha citato anche coloro che hanno decisione la sua espulsione tra coloro che facevano parte del sistema di cui in queste settimane è apparso una sorta di hub. Palamara ha affermato, subito prima della riunione del collegio dei probiviri che ha deciso la sua espulsione dall'ANM, di essere disposto a dimettersi ma «solo se ci sarà una presa di coscienza collettiva e se insieme a me si dimetteranno tutti coloro che fanno parte di questo sistema» e che «chi oggi mi vuole espellere ieri mi chiedeva aiuto» riferendosi «ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione, oppure a quelli che ricoprono ruoli di vertice all'interno del gruppo di Unicost, o addirittura ad alcuni di quelli che siedono nell'attuale Comitato direttivo centrale e che hanno rimosso il ricordo delle loro cene e dei loro incontri con i responsabili Giustizia dei partiti di riferimento».
Tra i magistrati a cui fa riferimento Palamara sulle «cene coi politici» c'è Eugenio Albamonte, anche lui magistrato della Procura di Roma ed ex presidente dell'ANM e segretario di Area (l'area considerata di sinistra dell'ANM), che ha dato mandato ai propri avvocati di querelarlo in quanto le cene citate da Palamara a detta dei suoi avvocati non sarebbero mai avvenute. Nella stessa seduta il collegio dei probiviri ha stabilito il non luogo a procedere per le espulsioni dei due magistrati in quota Unicost (la stessa corrente di Palamara) Spina e Morini e dei due in quota Magistratura Indipendente Lepre e Cartoni, coinvolti nell'inchiesta della Procura di Perugia da cui è partita tutta la vicenda, perché si sono dimessi un anno fa.
Decisa la sospensione di cinque anni per Criscuoli di Magistratura Indipendente, nell'elenco degli iscritti a rischio espulsione c'era anche Cosimo Ferri (attuale deputato di Italia Viva, ex Partito Democratico e sottosegretario alla Giustizia nei governi Letta e Renzi, ex leader di Magistratura Indipendente) ma lui sostiene di non essere più iscritto e non pagare più la quota associativa, la segreteria dell'ANM al contrario a Repubblica ha sostenuto che anche in questo mese la quota associativa mensile sarebbe stata trattenuta dallo stipendio di Ferri.
Tanto in questo periodo viene detto e scritto, alcune volte anche creando confusione e polverone su aspetti più o meno reali o realmente importanti, ma il dato di una magistratura vicina ai potentati economici e sensibile ad altre esigenze piuttosto che la giustizia e l’indipendenza della magistratura appare lampante. Abbiamo posto alcune domande a Umberto Santino, fondatore del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato Onlus.
Quale riflessione secondo Lei va tratta? Come la magistratura potrebbe liberarsi di questi «sistemi» e recuperare l’autorevolezza che pare si stia perdendo davanti a questa bufera?
«Si dice che il caso Palamara sia indice di una degenerazione delle correnti, dovuta al prevalere di interessi personali e professionali al loro interno, per cui si è creato un mercato delle cariche fondato sulle appartenenze, ma ritengo che sia la spia ulteriore di un problema più generale: la crisi della funzione giudiziaria nella società contemporanea e in particolare in una società come la nostra. La proliferazione di forme di crimine organizzato di tipo mafioso e la corruzione sistemica implicano un controllo di legalità molto gravoso che deve convivere con pratiche giudiziarie tradizionali che, in base al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, non possono essere tralasciate. A mio avviso molti reati dovrebbero essere depenalizzati e il processo penale non può durare all’infinito con tre gradi di giudizio per tutti i processi: giustamente si pone il problema della prescrizione ma l’appello dovrebbe essere limitato ai casi in cui ci sono novità rilevanti e la Cassazione non dovrebbe mai giudicare nel merito.
Si parla di commistione tra politica e magistratura, mi pare inevitabile e per la composizione del CSM, prevista dall’art.104 della Costituzione, e perché la politica cerca di condizionare il controllo di legalità affidandolo a mani di cui fidarsi. E siccome i poteri sono concentrati nei capi delle procure è su di loro che si appuntano le attenzioni.»
Negli ultimi mesi le scarcerazioni di molti detenuti mafiosi al 41bis ha creato clamore e polemiche, quale il suo pensiero? Condivide l’idea di magistrati antimafia per esempio che deve essere mantenuto come importante presidio? La sua abolizione era tra le richieste nella trattativa 92/93, una trattativa secondo alcuni mai veramente finita perché la mafia condiziona ancora la politica. Su questo s’inserisce anche quanto dichiarato da Di Matteo in televisione e la bufera mediatica successiva, quale opinione ha lei di tutto questo?
«Riguardo alle scarcerazioni c’è da dire che su 376 scarcerati e inviati ai domiciliari solo tre erano al 41 bis: un mafioso, Francesco Bonura, condannato a 18 anni e con fine pena a settembre 2020; un camorrista, Pasquale Zagaria, condannato a 20 anni e a fine pena gennaio 2024; uno ’ndranghetista, Vincenzo Iannazzo, in attesa di sentenza definitiva. I detenuti al 41 bis sono circa 800 e sui 376 scarcerati 221 erano in attesa di giudizio e 155 condannati definitivi. Mi pare che il giudizio più condivisibile sia quello espresso da Giuliano Turone, sulla base dei dati che ho riportato.
L’allarme suscitato dalle scarcerazioni ha portato alla retromarcia e alle dimissioni dei direttore del DAP. Non è stato un bello spettacolo. Si è detto che la decisione dovrebbe essere presa da un collegio di magistrati e non solo dal giudice di sorveglianza, ma si pongono due problemi: il 41 bis e il sovraffollamento del carcere. Il 41 bis va mantenuto per troncare i legami del detenuto con l’associazione mafiosa, ma anche i capimafia hanno diritto a essere curati e bisogna attrezzare adeguatamente i penitenziari».
La necessità di troncare i legami dei boss mafiosi con il territorio è tornata di attualità in queste ore: a Palermo un blitz dei carabinieri contro il clan Natale ha portato all'arresto di Giulio Caporrimo e Nunzio Serio: tornati in libertà, è l'accusa, hanno ripreso i loro posti di comando nel clan imponendo il pizzo e appropriandosi di cantieri edili, estromettendo le ditte presenti, nella zona ovest di Palermo.
«In Italia il sistema carcerario ha una capienza per 50.000 detenuti, mentre attualmente sono 60.000 con casi di dieci detenuti in una sola cella. In queste condizioni l’azione di recupero è impossibile. Il carcere dovrebbe essere riservato ai reati più gravi, per gli altri reati bisognerebbe ricorrere, molto più di quanto si faccia attualmente, a misure alternative e l’attesa di giudizio è troppo lunga.
Riguardo a quello che è accaduto tra il ministro Bonafede e il magistrato Nino Di Matteo, il ministro prima di fare la proposta doveva verificare se c’erano le condizioni per farla. Così si è esposto alle strumentalizzazione di Salvini e della Meloni, interessati a far cadere il governo, tenendo conto che i sondaggi sono ancora a loro favore. Questo governo è il frutto di un trasformismo indecoroso ma, se cade, si va alle elezioni e se vincono loro sarebbe un disastro. In ogni caso di cose così delicate sarebbe bene non parlarne da Giletti.»
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2020-06-24 19:48:02
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