«Giancà, le notizie so rottur e cazz». Queste poche parole di un dialogo tra Giancarlo Siani e il suo «capo» Sasà nel film Fortapasc riassumono una delle anime del giornalismo autentico. L’abbiamo ricordato nel gennaio scorso, aggiungendo che le notizie saranno pure «rottur e cazz» ma il giornalista «non trova mai pace» e «vive un tornado nel suo intimo», senza di esse non riesce a vivere.
Le conversazioni di Luca Palamara rese note in queste settimane ci raccontano, invece, uno spaccato diametralmente opposto, quello di giornalisti «complici» di altri interessi, intrecciati e conniventi con i palazzi e non sferzanti e indipendenti cronisti, pungolo della società e dei suoi dominus. Fatti che impongono forti e approfondite riflessioni. In una delle tantissime conversazioni l’abruzzese Giovanni Legnini, allora vicepresidente del CSM e prima ancora sottosegretario nei governi Letta e Renzi, scrive a Palamara che «il tema è orientare il gruppo, adesso Repubblica su un linea diversa» aggiungendo poco dopo «se vuoi parlo io, ho rapporti al massimo livello … dimmi tu … riflettici …».
Come abbiamo già riportato, in un’intervista a La Repubblica Legnini (oggi commissario governativo per il post terremoto 2016), le ha definite «espressioni infelici» e di non avere nessuna influenza sulla linea del quotidiano. E, come già abbiamo riportato, ad una richiesta di intervista sulla vicenda la capogruppo del principale gruppo di opposizione nel consiglio regionale abruzzese, insieme al PD (il partito con cui si candidò l’anno scorso alle elezioni regionali Legnini), ci ha risposto che potevamo fare copia incolla del suo post su facebook. Si torna così, come abbiamo concluso il precedente articolo, a Fortapasc e a Giancarlo Siani: ci sono i giornalisti giornalisti e i giornalisti impiegati ma, come sottolineato in quell’articolo, «da queste parti di impiegati non ne abbiamo».
Sandra Amurri, inviata de Il Fatto Quotidiano, è tra le giornaliste d’inchiesta più esperte. In conclusione dell’intervista che stiamo pubblicando ci siamo soffermati sul ruolo del giornalismo, sulle riflessioni che la pubblicazione delle conversazioni di Palamara dovrebbe imporre. Frasi nelle quali emergono anche alcune notizie importanti sugli ultimi mesi, su alcuni dei fatti che s’intrecciano con i protagonisti di queste conversazioni e non solo, che non hanno avuto il necessario risalto mediatico.
In alcune delle chat di Palamara rese pubbliche in queste settimane sono citati (come nel caso della conversazione con Legnini su Repubblica) diversi giornalisti, quale la sua riflessione sul significato e il ruolo del giornalismo oggi?
«Non trovo nulla di strano nel fatto che un giornalista ha contatti per conoscere. Questo ci fa capire alcune cose: la prima è che molti giornalisti sapevano ed erano al corrente di cosa accadeva nel Csm e nell’Anm. Personalmente la mia idea di giornalismo è che qualunque fonte è importante e va utilizzata, una notizia può provenire e va cercata ovunque, poi tocca al giornalista verificarla e lavorarci. Ovviamente le notizie non vanno scritte così come vengono dette, altrimenti si sarebbe complice, propagare notizie da altri soggetti riportandole senza verifiche e così come arrivano significherebbe esserne complici. Ben altro è cercare conferme e riscontri da cui possono scaturire altre notizie, questo è il giornalismo.
Al processo sulla trattativa, per quanto riguarda la conversazione da me ascoltata occasionalmente al bar Giolitti di Roma tra gli onorevoli Mannino e Gargani, ho compiuto semplicemente il mio dovere e non ho svolto nessun fatto eroico. Non fu proprio una passeggiata, l’assicuro, perché testimoniare in un’aula bunker con il fuoco incrociato degli avvocati agguerriti contro di me e avendo dovuto subire tutto quello che Mannino ha detto su gran parte degli organi di stampa: che ero una spia della Stati o del Kgb, che avevo la «fantasia eccitata» e mi ero inventata tutto, che avevo origliato come se in un luogo pubblico puoi non sentire quel che si dice dietro di te».
Sandra Amurri, da esperta giornalista d'inchiesta, a questo punto si sofferma sullo stato dell'informazione in Italia e sul ruolo di editori e direttori. Nella recente audizione presso la commissione parlamentare antimafia Nino Di Matteo ha citato l'ex direttore di Repubblica Ezio Mauro: «nel momento più aspro della polemica dovuta al conflitto di attribuzioni, il dottor Ingroia mi disse, a me e all’allora procuratore Messineo – ma fu una cosa buttata lì, io all’inizio pensavo che scherzasse – disse che a Roma aveva incontrato un direttore di un noto quotidiano che gli aveva detto che dal Quirinale gli avevano chiesto se c’era la possibilità di un qualche contatto con la procura di Palermo per risolvere questa situazione e che in quel caso il punto di collegamento poteva essere rappresentato dal dottor Palamara» la dichiarazione di Di Matteo. Mauro ha affermato all'Adn Kronos che sarebbe stato al contrario Ingroia a contattarlo e di non conoscere all'epoca il nome di Palamara. Eppure in quegli anni Palamara stava tra le altre per concludere il suo mandato al vertice dell'Anm ed era già stato tra i pubblici ministeri delle inchieste penali su Calciopoli. Sempre all'Adn Kronos Antonio Ingroia, all'epoca magistrato impegnato nelle inchieste sulla trattativa Stato-Mafia e oggi avvocato e presidente del movimento politico Azione Civile, ha confermato la ricostruzione di Nino Di Matteo.
Fatti che erano già stati riportati da Ingroia nel libro «Le Trattative» (2018) scritto con il giornalista Pietro Orsatti, prefazione di Marco Travaglio, introduzione di Franco Roberti e illustrazione di copertina di Vauro Senesi, nelle pagine che riportiamo nelle immagini pubblicate su facebook dallo stesso Ingroia dopo la deposizione in commissione antimafia di Nino Di Matteo. Una ricostruzione di quei fatti in cui ancora una volta spunta il nome dell'allora capo ANM Luca Palamara.
«Le mie inchieste sono sempre state acquisite dalle Procure della Repubblica e il giornalista non è quello che si deve far dare le notizie e riportarle passivamente. Invece in questo Paese l’importante è diventato pubblicare una notizia coperta dal segreto. Non condivido perché il metodo che condivido è quello del giornalista d’inchiesta, il giornalista che fa la sua inchiesta, cerca verifiche e riscontri, se l’inchiesta è fondata sarà la magistratura ad acquisirla. Ma purtroppo il giornalismo d’inchiesta in questo Paese appare passato, così come l’informazione stessa: il risultato è che si corre dietro al magistrato, si telefona per chiedere cosa e come scrivere. Non esistono più gli editori puri e c’è la crisi di vendite dei giornali. Qui c’è un cane che si morde la coda: gli editori non vendono più e nominano direttori ai quali non chiedono più di fare un buon giornale ma fedeltà al direttore che, a sua volta, lo chiede ai suoi giornalisti. Il risultato è che l’informazione viene azzerata.
Un esempio personale: ho lavorato con Antonio Padellaro e Furio Colombo quando hanno riaperto L’Unità, non era più ufficialmente l’organo di stampa del partito ma dal segretario del partito di riferimento Piero Fassino. Non si creda che Padellaro non le avesse, ha però sempre difeso e garantito la libertà dei giornalisti e quando non gli è stato più permesso se ne è andato. Anzi, per essere precisi, l’hanno cacciato.
Oggi il direttore viene nominato sulla base della fedeltà all’editore, di conseguenza chiede fedeltà e assicuro che vale per tutti. Per questo sento un grande disagio nel continuare a fare questo mestiere, che ho sempre fatto per molti anni con una libertà totale e cercando le notizie. Viviamo in un periodo storico in cui le domande sono scomode, come accaduto per esempio quando Conte ha risposto ad un collega «se vuole prenda il mio posto», un episodio che è passato inosservato, o quando Arcuri si è permesso di rispondere alla giornalista di Report «ma lei che squadra tifa?». Anche di alcune nomine accanto ad Arcuri nessuno scrive nulla (sulla nomina di Massimo Paolucci Wordnews ne ha scritto in solitaria o quasi in vari articoli, nda) perché l’input è che il governo non si deve criticare e che non ci sarebbe alternativa, se va a casa questo governo c’è Salvini.
Il governo in queste settimane ha rifinanziato Alitalia per oltre 400 milioni, ricorda Sandra Amurri nell'intervista. In realtà si è trattato di una intensa e fluida conversazione, in cui la giornalista ha condiviso con noi notizie e riflessioni, offermandosi qualche momento anche sulla compagna di Domenico Arcuri, Antonella Mansi.
Antonella Mansi è oggi vice presidente nazionale di Confindustria, ex presidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena ed indagata (insieme ad altre venti persone) per la bancarotta di Alitalia-Sai. Va ovviamente sottolineato che siamo in fase di chiusura delle indagini, ora le parti dovranno presentare le proprie memorie e solo dopo vedremo se e cosa accadrà. L’inchiesta è stata chiusa – con la notifica 415bis alle persone coinvolte – nel febbraio scorso, varie le accuse ipotizzate dalla Procura di Civitavecchia. Va ovviamente sottolineato che il diritto/dovere di cronaca oggi ci riporta questo, ma la vicenda giudiziaria deve ancora nascere ed evolversi e – come stabilito dalla Costituzione – ovviamente vale la presunzione d’innocenza.
«Credo che il ruolo del giornalista e dell’informazione è quello di stimolare e fornire elementi conoscitivi: la notizia è notizia, a prescindere da chi viene toccato. Un titolo di prima pagina su un mio ipotetico giornale sarebbe né con Conte né con Salvini, l’unico dovere del giornalista deve essere che le notizie che racconta siano vere e chi legge possa formarsi un’opinione. Anche per costruire sistemi e poteri diversi. Quando chi dovrebbe informare è di parte e sostiene l’idea che questo è l’unico governo possibile e quindi, per esempio, Bonafede non si deve toccare e quindi si prende qualunque incredibile posizione esonerandolo da ogni possibile responsabilità politica, altrimenti va a casa questo governo, significa che l’informazione ha abdicato alla sua funzione e al suo ruolo.
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2020-06-30 19:09:21
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