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LA GUERRA IN UCRAINA E IL COSTITUZIONALISMO DEMOCRATICO

by Redazione Web
19 Marzo 2022
in L'Opinione
Reading Time: 8 mins read
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La guerra in Ucraina pone vari interrogativi al costituzionalismo democratico. Ovviamente è innegabile la gravità di quanto è avvenuto con l’intervento militare della Russia sul territorio ucraino. Tuttavia non è la prima volta, come la narrazione generale tende a far credere, che viene violata con la forza l’integrità territoriale di uno Stato europeo.

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Va ricordato in particolare il bombardamento della NATO, con ampia utilizzazione delle basi collocate in Italia, effettuato nel 1999 per 72 giorni su Belgrado a sostegno della indipendenza del Kosovo, che costituiva una indubbia ingerenza interna nei confronti della Serbia nel quadro di uno scontro militare tra esercito e indipendentisti.

L’aggravante oggi è rappresentata dall’ingresso diretto dell’esercito russo sul territorio dell’intera Ucraina, con le conseguenze drammatiche che determina in termini di distruzione di strutture essenziali, di morti e di condizioni disumane che colpiscono la popolazione civile.

 

Si tratta di un intervento che viola apertamente la Carta delle Nazioni Unite e il Patto di Helsinki e quindi deve essere condannato senza alcuna equidistanza tra le parti belligeranti. Così come va condannata qualsiasi guerra che in base all’art. 11 Cost. non abbia una dimensione puramente difensiva contro un’aggressione esterna.

Ciò detto, tre sono le questioni fondamentali che ci interrogano.

La prima è la salvaguardia della libertà di critica all’interno di uno Stato democratico, che viene messa in discussione da reazioni intolleranti e da accuse infondate di putinismo contro chiunque esprime dubbi e riserve sul comportamento degli Stati Uniti e della Nato. Si pone quindi la necessità di rivendicare il diritto di esprime opinioni dissonanti rispetto al clima da union sacrée che è stato diffuso.

 

Ciò vale in particolare per chi esprime dubbi tutt’altro che infondati sulla responsabilità degli Stati Uniti e della Nato nel perseguimento di una strategia di accerchiamento militare della Russia, senza porsi il problema di una neutralizzazione dell’Ucraina e senza che sia stata data alcuna garanzia alle istanze autonomistiche interne al paese, situazione che ha determinato nel Donbass una prolungata guerra interna non dichiarata, che tra il 2014 e il febbraio 2022 ha causato più di 14.000 morti e più di 20.000 feriti.

 

Ciò non significa affatto giustificare l’intervento della Russia, ma prendere atto che l’atteggiamento degli Stati Uniti e della Nato ha fornito un alibi a Putin per arrivare all’intervento.

 

Quindi desta una forte preoccupazione e va condannata ogni isteria antirussa, come quelle che si sono verificate con l’allontanamento dalla Scala di Milano di un importante musicista russo, con la sospensione del corso su Dostoevskij all’Università Bicocca di Milano, con la censura espressa dai vertici della LUISS per le opinioni espresse pubblicamente dal professor Alessandro Orsini.

Non meno condannabili sono gli attacchi ai pacifisti che scendono in piazza per dire no alla guerra e non chiedono armi per l’Ucraina, pretesa veramente incredibile per chi è pacifista.

 

Ci manca solo che siano condannati e accusati di putinismo i pacifisti russi duramente repressi che non chiedono armi per l’Ucraina ma la fine della guerra e della propaganda di regime.

 

Infine è stata accusata di putinismo l’ANPI dai soliti anti-antifascisti in servizio permanente effettivo che sono stati silenti di fronte alla devastazione della sede nazionale della CGIL, ma non tollerano critiche alla politica di Stati Uniti e Nato.

 

La seconda questione riguarda il rispetto dell’art. 11 della Costituzione. Qui va registrata un’escalation tra il primo decreto-legge approvato dal Governo, il n. 14/2022, che prevedeva l’invio di “mezzi e materiali di equipaggiamento militari non letali di protezione” e il secondo decreto legge, il n. 16/2022, che nello stabilire uno stato di emergenza fino al 31 dicembre 2022, già in sé discutibile per l’eccessiva estensione temporale (da notare che nel contempo si è ribadito che lo stato di emergenza da Covid avrebbe preso fine il 31 marzo), autorizza “la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore della autorità governativa dell’Ucraina in deroga alle disposizioni di cui alla legge 9 luglio 1990, n. 185” (legge che vieta “l’esportazione e il transito di materiali di armamento verso i Paesi in stato di conflitto armato” ex. art. 1, c. 6, lettera a).

A sua volta il Parlamento con una maggioranza bulgara ha approvato una risoluzione che, accanto a misure più che condivisibili (cessazione del fuoco e ritiro delle truppe russe, sostegno alle sanzioni, assistenza umanitaria, finanziaria e economica, risorse per l’accoglienza dei profughi), prevede “la cessione di apparati e strumenti militari” per l’autodifesa dell’Ucraina.

 

La conseguenza dell’invio delle armi è che fa diventare l’Italia paese belligerante, al di là del fatto che lo stato di guerra non sia espressamente dichiarato, come del resto è sempre avvenuto negli ultimi venti anni per gli interventi militari all’estero (in particolare con la seconda guerra del Golfo in Irak, in Afghanistan e in Libia) con un sostanziale aggiramento dell’art. 11.

 

Siamo in sostanza di fronte al confezionamento di un “diritto di guerra” in deroga.

 

Ora, è vero che il concetto di guerra difensiva ex art. 11 può essere esteso fino a ricomprendere l’intervento a favore di Stati facenti parte di un’alleanza internazionale o di un organismo sovranazionale ai quali l’Italia partecipa. Ma nel caso concreto l’Ucraina non fa parte né della Nato né della UE e quindi è un paese terzo e non c’è nessuna risoluzione dell’ONU, come avvenne per la prima guerra del Golfo a favore del Kuwait, che giustifichi un intervento armato a suo favore. Se si vuole evitare il rischio di un’estensione della guerra, che porrebbe la prospettiva drammatica e lugubre del possibile ricorso alle armi nucleari, l’obiettivo più fondato e realistico, oltre all’aiuto economico umanitario, è quello di un intervento autorevole, per il quale la parola dovrebbe spettare all’ONU, per avviare prima possibile una iniziativa diplomatica di ampio respiro, che comporti la cessazione delle ostilità e la salvaguardia della popolazione civile.

Infine la terza questione fondamentale è l’assoluta emarginazione del Parlamento.

 

Il decreto-legge n. 16 attribuisce al Ministro della difesa, di concerto con i Ministri degli affari esteri e dell’economia e finanze, la definizione dell’elenco dei mezzi, materiali e equipaggiamenti materiali e della relativa spesa. A questa sostanziale segretezza, che differenzia l’Italia da altri paesi come la Germania e il Regno Unito, dove è stato reso noto l’elenco delle armi oggetto di un primo invio, non rimedia certo la risoluzione parlamentare che prevede un generico obbligo di informazione del Parlamento.

Siamo quindi di fronte ad un ulteriore tassello nel processo di degrado della democrazia parlamentare su un terreno particolarmente importante e delicato. Tanto più che un’interpretazione sistematica della Costituzione, la quale per lo stato di guerra impone una delibera parlamentare, da adottare con legge secondo la dottrina più qualificata, che conferisca al Governo i poteri necessari, impone a più forte ragione che un intervento militare emergenziale e di dubbia costituzionalità ai sensi dell’art. 11 sia costantemente portato a conoscenza quanto meno delle Commissioni competenti di Camera e Senato.

 

                                                                                         

                                                                                          Mauro Volpi, costituzionalismo.it

 

 

LEGGI I NOSTRI ARTICOLI:

- «Putin sottovaluta l’Europa»

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