- UNA VITA CONTRO LA CAMORRA, il nuovo libro di Paolo De Chiara
Nella conclusione, i Promessi sposi potrebbero proporre tutti gli elementi di un comune lieto fine: concluse pesti e guerre, i due fidanzati separati si ricongiungono, si sposano e attendono un futuro tranquillo, mentre il cattivo, don Rodrigo, è morto. Eppure, Manzoni si guarda bene dal proporci un finale così banalmente rasserenante. Don Abbondio è rimasto don Abbondio e dapprincipio esita ancora a celebrare il matrimonio; il marchese che sostituisce don Rodrigo è un uomo probo, ma non tanto da invitare al suo tavolo i due contadini-artigiani quando offre un banchetto riparatore; i due sposi devono lasciare il paese natio; la gente che ha saputo delle grandi avventure dei due eroi, quando vede Lucia, si stupisce che Renzo abbia fatto tanto per “una contadina come tant’altre”; Renzo si amareggia tanto da voler cambiare di nuovo paese.
Dunque, i Promessi sposi risultano alla fine, secondo la felice formulazione di Ezio Raimondi, un “romanzo senza idillio”, cioè un romanzo che rifiuta facili consolazioni. La stessa morale della storia – il sugo di tutta la storia – posta in bocca ai due protagonisti, è una morale cauta, che parte da un iniziale pessimismo per superarlo. Certo, ora si è costruito un modello di società utopica e realistica insieme: la famiglia, il lavoro, la serenità quotidiana. Ma la storia, come forza che travolge, rimane nello sfondo del passato. Il problema resta allora guardare al male, conoscerlo nella sua reale essenza e costruire comunque o (ri)costruire una vita che non se ne lasci macchiare o vincere.
Ebbene, quando ho terminato la lettura di Una vita contro la camorra. La storia vera e scomoda di un testimone di giustizia, ho avvertito come la sensazione di aver sfogliato questa pagina manzoniana.
Un “romanzo” senza idillio quello costruito con una singolare abilità narrativa da Paolo De Chiara.
Romanzo?! No. Storia autentica, persone reali, drammatici eventi verificatisi in Italia, “il bel paese dove il sì suona, il bel giardino d’Europa” – come la definisce Dante nella Commedia –: il Paese dei paradisi naturali, della Bellezza artistica, della bontà culinaria, da una parte, ma dell’Inferno delle mafie, della corruzione, della manipolazione, dall’altra.
Un testimone di giustizia, con le sue coraggiose denunce, ci fa addentrare sempre più nell’oscuro mondo di lavori e appalti pubblici truccati, imbrogli, materiali scadenti, morti sui cantieri, omicidi. Grazie alle tante prove addotte, ai numerosissimi fascicoli faticosamente ma alacremente fotocopiati, assemblati e confezionati per le varie Procure, via via Giovanni Falconera – nomen omen! – riesce a smascherare la sporca anima del “re delle Autostrade”, Mario Luovo, l’impresario; via via, grazie al suo coraggio, alla sua decisa risolutezza e ferma convinzione, viene squarciato quel velo di Maya che rivela finalmente i loschi traffici dei Peracottari e gli stretti legami con la mafia campana.
Una vita contro la camorra fotografa lucidamente il quadro di un sistema corrotto, in un intreccio tra la camorra, la politica e l’imprenditoria, che trae profitto e vantaggi anche dagli appalti pubblici. Rivelare a diverse Procure italiane le anomalie, i guadagni illeciti e i legami con le figure di spicco nel mondo aziendale e istituzionale non ha consentito, però, a Giovanni di riprendere in mano la sua vita e (ri)costruirla dalle ceneri: dalle ceneri di una famiglia persa, di un lavoro perso, di una casa persa, di affetti disintegrati, di un’identità traballante. Tutt’altro!
Denunciare lo ha affossato ancora di più, lo ha isolato ancora di più, lo ha imbarbarito ancora di più. Non si è sentito protetto dal cosiddetto SCP (Sistema Centrale di Protezione) o dai NOP (Nuclei Operativi di Protezione). Anzi, spesso si è sentito da loro stessi etichettato, schernito, denigrato, scambiato per un collaboratore di giustizia, per un pentito. Quanta confusione! Quanta non-conoscenza! Quanta generalizzazione!
Generalizzazione che lede, ferisce, pugnala, anche in assenza di armi fisiche. Generalizzazione che disumanizza, appiattisce, schiaccia, annienta, avvilisce, umilia.
Falconera ha provato tutto questo, in preda a momenti di grande sconforto, scoramento, disperazione, desolazione e angoscia.
Un civis perbene, un uomo onesto, un ex-carabiniere peraltro, che decide, non a cuor leggero, di parlare, affidandosi alla Legge, confidando nella Giustizia della sua “bella” Italia, affidandosi agli apparati del suo Stato, ad un certo punto è portato a mettere persino in dubbio l’aver operato una scelta così audace, vista la lentezza e la poca prontezza di ‘sta giustizia, nonché il trattamento a lui riservato, alla stregua di un criminale, nelle molteplici città in cui è stato continuamente trasferito: Firenze, Perugia, Campobasso, Terni, Pescara, Monza.
Una vita contro la camorra non è improntato alla categoria del verosimile: ha tutti i tratti del vero storico, fondato su dati concreti, fatti reali, evidenze incontrovertibili, come i file salvati sulla pendrive, le carte “parlanti”, le fotografie scattate durante i lavori o l’esatta cifra di un appalto di 14 milioni di euro.
Paolo De Chiara non è un romanziere: è uno scrupoloso giornalista d’inchiesta, ma mostra di conoscere bene la morfologia della fiaba di Vladimir Propp. Con un’attenta analisi narrativa, si potrebbero persino rintracciare nella sua opera le 31 funzioni di Propp. Tra queste, ad esempio, troviamo: l’allontanamento, il divieto, l’infrazione o l’avvertimento ignorato, la ricognizione o l’investigazione, l’ottenimento o la delazione, il raggiro o il tranello, la connivenza, il danneggiamento o la mancanza, la mediazione, la decisione, la partenza, le prove, la reazione, il conseguimento dell’oggetto magico, il trasferimento, la lotta, la marchiatura, la vittoria, la rimozione, il ritorno, la persecuzione o l’inseguimento, il salvataggio, l’arrivo in incognito, le pretese infondate, l’identificazione o il riconoscimento, lo smascheramento, la trasfigurazione, la punizione.
Nella storia vera e scomoda di un testimone di giustizia sembra anche di poter individuare uno schema delle funzioni di Propp: l’equilibrio iniziale, la rottura di questo equilibrio, le peripezie dell’eroe, il ristabilimento dell’equilibrio. Altrettanto possiamo dire per i ruoli di alcuni personaggi: il protagonista Giovanni Falconera, l’antagonista Mario Luovo, il mandante – il motore dell’azione narrativa – la coscienza di Giovanni di fronte al crollo del casello, l’aiutante Gennaro Cilibertone, il personaggio cercato (principessa) o premio Gisella.
Giovanni, Paolo, l’agendina rossa: quanti echi, quante risonanze, quante allusioni alla Giustizia vera, alla Legalità autentica e non vacua, al rispetto delle Regole che salvaguardano i più e non i pochi.
I testimoni di giustizia come Falconera sono i piccoli mattoni delle fondamenta della lotta alle mafie, ma, fin quando non cambieranno le persone e la mentalità, non ci sarà posto per queste persone oneste nel “Paese del giorno dopo”, nel “Paese delle commemorazioni, delle corone, delle celebrazioni, dell’ipocrisia”.
Si sfida la camorra e si diventa un fuggiasco.
Si denuncia e si diventa il nulla mischiato con il niente.
Si chiede aiuto e si registra solo silenzio.
Ecco, dunque, che un “già testimone di giustizia”, sconfitto da uno Stato burocrate, indifferente e insensibile, per provare a (ri)nascere, a (ri)trovarsi e a (ri)costruirsi va altrove, dicendo Addio, Paese ingrato!, proprio come Renzo, fermandosi un momento sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che poco prima scottava tanto sotto i suoi piedi, disse: “Ah! Ne son proprio fuori! Sta lì, maledetto paese!”. Fu quello il suo addio alla patria.
È questo il suo rammaricato “Addio Italia” alla patria da parte de “Il fu Giovanni Falconera”, che dal suo autoesilio ritorna nella terra natia solo per le udienze o per incontrare gli studenti, a cui consegna perle di saggezza fondamentali: “Dovete coltivare l’atrocità del dubbio; Dovete imparare a pensare in direzione contraria per fuoriuscire dalla cornice dei valori dominanti; Non allineatevi mai. Coltivate il bisogno di essere voi stessi. Sempre”.
Proprio come ha fatto lui. A gran prezzo, ma salvaguardando l’onore e la dignità.
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Paolo De Chiara autore del libro
Una fimmina calabrese, così Lea Garofalo sfidò la ‘ndrangheta
Questa è la storia di Lea Garofalo, la donna-coraggio che si è ribellata alla ‘ndrangheta, che ha tagliato i ponti con la criminalità organizzata. Nata in una famiglia mafiosa, ha visto morire suo padre, suo fratello, i suoi cugini, i suoi parenti, i suoi amici, i suoi conoscenti.
Un vero e proprio sterminio compiuto da uomini senza cuore, attaccati al potere e illusi dal falso rispetto della prepotenza criminale.
Lea ha conosciuto la ‘ndrangheta da vicino: come tante donne, ha subìto la violenza brutale della mafia calabrese. Ha denunciato quello che ha visto, quello che ha sentito: una lunga serie di omicidi, droga, usura, minacce, violenze di ogni tipo. Ha raccontato la ‘ndrangheta che uccide, che fa affari, che fa schifo! È stata uccisa perché si è contrapposta alla cultura mafiosa, che non perdona il tradimento – soprattutto – di una fimmina.
A 36 anni è stata rapita a Milano per ordine del suo ex compagno, dopo un precedente tentativo di sequestro in Molise, a Campobasso.
La sua colpa? Voler cambiare vita, insieme a Denise. Per la figlia si è messa contro il convivente, i parenti, il fratello Floriano.
In questo Paese «senza memoria» lo Stato dovrebbe vergognarsi per come ha trattato e continua a trattare questi cittadini onesti, che hanno semplicemente fatto il proprio dovere. Gli esempi non possono essere accatastati.Devono poter sbocciare come candide rose, per inebriare le nostre menti delle loro passioni, della loro forza e del loro immenso coraggio. Senza dimenticare i familiari delle vittime, nemmeno loro possono essere lasciati soli.
Le mafie, sino a oggi, hanno ucciso più di 150 donne. Solo grazie alle fimmine è possibile immaginare un futuro diverso per questo Paese, un futuro senza il puzzo opprimente di queste organizzazioni criminali, che possono tutto per la loro immensa potenza economica e militare. Per i loro legami secolari con la politica e le Istituzioni. Con Lea e con Denise non hanno potuto nulla.
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