Nino Di Matteo, magistrato in prima fila nella lotta alle mafie. Da più di 30 anni sotto scorta per il suo lavoro ha portato avanti (istruito e rappresentato accusa) in centinaia di processi. Tra i più noti sicuramente c’è il cosiddetto processo “Trattativa Stato-Mafia”.
Dottore Di Matteo. Lei è uno dei magistrati più in vista in Italia, grazie anche al processo cosiddetto “Trattativa Stato-Mafia”. Ma, anche a causa di quel processo, è una delle persone più scortate d’Italia e, mi permetta di dire, più criticate. Ma andiamo in ordine. Ci può dire l’origine del processo Trattativa e quale era il vostro obiettivo?
Occorre fare una premessa, in un percorso professionale lungo più di trent’anni, ho istruito e rappresentato l’accusa in centinaia di processi di mafia, conclusi definitivamente con innumerevoli e pesanti condanne, anche all’ergastolo. Mafia “militare” e rapporti criminali di politici, pubblici amministratori ed imprenditori con cosa nostra. Tra gli altri processi: il via D’Amelio ter, quello per la strage Chinnici, per l’omicidio del Giudice Saetta e del figlio Stefano ed ancora, l’omicidio di Pio La Torre, del giovane collaboratore dei servizi Emanuele Piazza, altri processi molto complessi per tanti fatti di sangue connessi alle “normali” dinamiche criminali della mafia gelese e di quella corleonese dei Riina e dei Provenzano. Eppure, il mio nome è accostato quasi esclusivamente al processo “trattativa”. Forse a qualcuno conviene così; magari fingendo di dimenticare che anche questo processo in primo grado si era concluso con il pieno accoglimento della nostra tesi di accusa e la condanna di tutti gli imputati.
Come tutti i processi nei quali “lo Stato deve processare se stesso” crea non pochi problemi fin dall’inizio. Si ricorda quali sono stati i vostri primi ostacoli pesanti?
Istruire un processo come quello sulla trattativa Stato-mafia è ancor più difficile e complicato anche rispetto a quelli che riguardano rapporti di collusione della mafia con singoli esponenti politici, anche di livello. Con i colleghi, fin dall’inizio delle indagini, abbiamo respirato la diffusa omertà istituzionale ed il subdolo e sistematico tentativo di inquinare e confondere il quadro investigativo. Per essere più chiaro: se dovevamo accertare cosa si fossero detti tre soggetti nel corso di una conversazione tra loro, ciascuno dei tre finiva per rendere dichiarazioni diverse e incompatibili con gli altri; tre testimoni, tre versioni diverse. Una vera e propria strategia di intorbidimento delle acque.
Quali sono state le differenze e cosa si è scoperto con la sentenza di primo e secondo grado?
In realtà, aldilà dell’esito solo parzialmente difforme, i fatti principali sono stati ricostruiti allo stesso modo dalle Corti di Assise di primo e secondo grado: il ricatto a suon di bombe dei vertici della mafia nei confronti di tre diversi governi della Repubblica; il ruolo svolto da alcuni uomini delle istituzioni che avevano operato fungendo da cinghia di trasmissione delle richieste di cosa nostra allo Stato; l’avvio di una interlocuzione istituzionale con la fazione “moderata” che faceva capo a Provenzano per contrastare la fazione più intransigente e violenta riconducibile a Riina e Bagarella; la mancata perquisizione del covo di Riina come segnale di distensione e affidabilità alla controparte della trattativa; la protezione della latitanza di Provenzano come frutto avvelenato di “un’alleanza con un nemico per sconfiggerne un altro ritenuto ancor più pericoloso”
Però la Corte di Cassazione, come lei ha scritto nel suo ultimo libro insieme al giornalista Saverio Lodato, ha dato un “Colpo di spugna”. Perché?
Credo che quelle conclusioni delle Corti di merito, consacrate complessivamente in oltre diecimila pagine di motivazione delle sentenze, costituissero un fardello troppo pesante e scabroso per poter essere accettato dal sistema di potere. La Cassazione, giudice di legittimità, è invece inopinatamente entrata nel merito dei fatti processuali. Ad esempio sostenendo (per riqualificare il delitto di minaccia a corpo politico dello Stato in semplice tentativo di minaccia) a discapito di numerose e significative prove di segno opposto, che i governi allora in carica non avevano neppure percepito la minaccia mafiosa e non avevano collegato le stragi alle richieste dei mafiosi, prima tra tutte quella dell’affievolimento del 41 bis, del carcere duro. Per arrivare a quelle conclusioni la cassazione ha dovuto perfino ignorare e disattendere la testimonianza di autorevoli esponenti istituzionali, primo tra questi il Presidente Napolitano.
Tornando agli ostacoli che ha avuto a causa di questo processo, forse uno dei più pesanti è stato quello relativo al coinvolgimento dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ci spiega cosa è successo e come è andata?
Stavamo intercettando l’ex Ministro Nicola Mancino che avevamo iscritto nel registro degli indagati. Si trattava ovviamente di ascolti autorizzati dal GIP al quale avevamo prospettato i motivi di quella intercettazione. Fin dall’inizio, emerse il tentativo del Senatore Mancino di evitare in tutti i modi di essere sottoposto, come io avevo chiesto in udienza, ad un confronto dibattimentale con l’ex Ministro della Giustizia Claudio Martelli. Vennero poi legittimamente registrate altre conversazioni del Senatore Mancino con il Presidente Giorgio Napolitano. Quando, al termine dell’indagine, emerse la circostanza della esistenza (e non il contenuto) di quelle conversazioni il Quirinale sollevò, innanzi alla Corte costituzionale, conflitto di attribuzioni contro la Procura di Palermo. Fu un’iniziativa clamorosa che segnò, anche simbolicamente, un passaggio importante. Pur avendo sempre rispettato la Legge, venivamo indicati come eversori che avevano la volontà di comprimere le prerogative costituzionali della massima carica dello Stato. Prima di quel momento alcuni importanti esponenti politici ed istituzionali avevano spontaneamente bussato alle nostre porte per raccontare fatti e particolari che ci avevano molto aiutato a capire cosa accadde, anche a livello istituzionale, nel periodo delle stragi. Dopo l’iniziativa di Napolitano, quel flusso di informazioni, si attenuò fino ad esaurirsi del tutto.
Ennesimo ostacolo, che questa volta riguarda la sua vita, sono state le minacce ricevute direttamente da Totò Riina dal carcere.
Riina non era un capo mafia qualsiasi. Era colui il quale per decenni aveva ideato e organizzato una lunga teoria, senza precedenti, di stragi ed omicidi eccellenti, in Sicilia e fuori dalla Sicilia. Le frasi intercettate, durante l’ora d’aria al carcere di Opera con il compagno di socialità Alberto Lo Russo, non erano semplici minacce. Rappresentavano chiaramente la volontà di Riina di far pervenire all’esterno, tramite il Lo Russo, la richiesta di uccidermi. Qualche tempo dopo, il collaboratore di giustizia Vito Galatolo raccontò nei particolari la preparazione di un attentato nei miei confronti con l’utilizzo di esplosivo che era già pervenuto a Palermo; il quadro era divenuto ancora più chiaro e preoccupante.
Nel corso degli anni, soprattutto negli ultimi, riceve spesso pesanti attacchi dalla politica. Riesce a darsi una risposta sul perché avviene questo?
Ho le mie idee politiche, ma non sono mai stato collaterale a nessun partito, a nessuna corrente della magistratura, a centri di potere di qualsiasi tipo, dai quali cerco di mantenermi distante. Non ho mai chiesto aiuto o protezione da nessuno. Quando l’ho ritenuto doveroso, ho preso posizione contro alcune riforme o progetti di riforme in tema di giustizia a prescindere dal colore politico dei proponenti. Forse anche per questo posso aver dato e continuare a dare fastidio a qualcuno.
A conti fatti cosa resta di questo processo e cosa ci ha fatto conoscere di nuovo e tangibile?
Sarebbe impossibile ricordare in poche battute tutte le importanti circostanze di fatto emerse dal processo e che neppure la sentenza della Cassazione ha potuto mettere in dubbio. Ne voglio ricordare una sola, particolarmente significativa: mentre il sangue delle vittime della strage di Capaci era ancora caldo, autorevoli esponenti delle istituzioni si rivolsero, tramite Vito Ciancimino, a Riina e Provenzano per capire cosa volessero per abbandonare la strategia stragista che avevano intrapreso. Per far venire meno, sono parole del Generale Mori, il “muro contro muro tra lo Stato e la mafia”. Una manifestazione di disponibilità al dialogo ed alla mediazione che di fatto contribuì ad alimentare nei vertici di cosa nostra il preciso convincimento che quella stragista fosse proprio la strategia giusta per far piegare le ginocchia allo Stato e ottenere i benefici desiderati.
Parlando delle varie riforme della giustizia che sono state approvate, cosa ne pensa? Ogni tanto torna a galla la questione sulla eliminazione delle intercettazioni; eliminazione quasi totale di abuso d’ufficio e corruzione; separazione delle carriere e altro. Sono davvero necessarie queste riforme?
Per dare un giudizio compiuto bisogna sforzarsi di avere una visione d’insieme delle varie riforme che si sono succedute negli ultimi anni, le riforme Nordio, ed ancor prima la riforma Cartabia, affondano le radici in un passato ormai lontano e rispondono ad una caratteristica di fondo. Piuttosto che occuparsi dell’annoso problema della lentezza dei processi (alla cui soluzione nessuno sembra seriamente intenzionato) si disegna uno scudo di protezione per i potenti; si indeboliscono gli strumenti investigativi per la repressione dei reati tipici dei colletti bianchi; attraverso le riforme costituzionali delle quali si discute (a partire da quella sulla separazione delle carriere di Pubblici Ministeri e Giudici) si tende pericolosamente alla limitazione della indipendenza della magistratura e si rischia di far diventare il Pubblico Ministero un “avvocato della Polizia” e le Procure della Repubblica uffici collaterali e serventi del potere esecutivo. Un panorama complessivamente preoccupante rispetto al quale tutti, per primi noi Magistrati, dobbiamo sentire l’obbligo della pubblica denuncia. Non a protezione di un interesse di casta ma per la tutela effettiva dei diritti costituzionalmente garantiti a ciascun cittadino.
Per finire una domanda un po’ più personale. Da più di 30 anni è sotto scorta, a tratti pesante, e rischia la sua vita tutti i giorni. Sicuramente anche la sua famiglia ne risente. Come riesce ad andare avanti e perché lo fa?
Certe volte me lo chiedo anch’io. E non sempre trovo una risposta razionale.
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«Credo che l’opinione pubblica abbia non soltanto il diritto ma, oserei dire, il dovere di essere informata sui processi che sono stati celebrati e che non vengono raccontati dalla grande stampa. L’opinione pubblica deve essere informata e chi ha un ruolo all’interno dello Stato, della magistratura e delle forze di polizia, ha il dovere di non fermarsi.»
Nino Di Matteo
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«Con determinati ambienti non si può convivere o tanto meno trattare»
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SECONDA PARTE. «Chi ha ucciso Paolo Borsellino è chi ha prelevato l’Agenda Rossa»
TERZA PARTE. Borsellino «L’Agenda Rossa è stata nascosta. E’ diventata arma di ricatto»
L’INTERVISTA al colonnello dei carabinieri Michele RICCIO
Prima parte: «Dietro alle bombe e alle stragi ci sono sempre gli stessi ambienti»
Seconda parte: Riccio: «Mi ero già attrezzato per prendere Bernardo Provenzano»
Terza parte: «Non hanno voluto arrestare Provenzano»
Quarta parte: Riccio: «L’ordine per ammazzare Ilardo è partito dallo Stato»
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