C’è un piano. Non è segreto, né improvvisato. È stato pensato, scritto, ripetuto in mille modi: prima come promessa elettorale, poi come strategia militare, infine come realtà sul campo. È il piano di Benjamin Netanyahu di invadere, occupare e trasformare la Striscia di Gaza. Un progetto che ha l’ambizione di riscrivere la geografia, ma soprattutto la demografia, eliminando – fisicamente, culturalmente, politicamente – il popolo palestinese.
Mentre i droni sorvolano i tetti distrutti e le bombe cadono su scuole e ospedali, Gaza viene soffocata. Non solo con le armi, ma con un lento strangolamento umanitario: acqua tagliata, corrente interrotta, forniture alimentari bloccate. E se passa un convoglio, è perché Tel Aviv ha concesso l’autorizzazione. Chi dovrebbe garantire i diritti umani, in realtà ne è giudice e boia.
Non è una novità. Già anni fa Donald Trump, con la consueta arroganza da venditore immobiliare, parlava della possibilità di “ricostruire” Gaza, trasformandola in una Dubai del Mediterraneo. Una città ricca, moderna, con investimenti internazionali – ma senza palestinesi. Ora quel sogno distopico sembra prendere forma, ma sulle macerie di case reali, con persone reali, sotto gli occhi veri di un mondo finto.
Netanyahu lo chiama “sicurezza”, ma è conquista. Lo chiama “difesa”, ma è spoliazione. Gaza non è solo un territorio, è un simbolo. E distruggerlo significa distruggere anche ciò che rappresenta: resistenza, identità, diritto all’esistenza. Ogni raid, ogni casa rasa al suolo, ogni corpo estratto dalle macerie è un messaggio: qui non dovete più vivere.
E il mondo? Gli Stati Uniti non solo guardano, ma partecipano. Washington fornisce armi, copertura diplomatica e, soprattutto, una narrazione. La stessa che dipinge Israele come l’unica democrazia della regione, anche quando agisce come una potenza coloniale. In cambio, ottiene stabilità, controllo e alleanza. A costo di sacrificare un intero popolo.
E l’Europa? L’Europa balbetta. Pronuncia frasi sbilenche come “diritto alla difesa” o “cessate il fuoco immediato”, “siamo preoccupati” mentre i cadaveri si accumulano. I leader si muovono come burattini impauriti, stretti tra sensi di colpa storici ed interessi economici. Nessuno osa davvero rompere con Israele. Solo la Francia, per ora, col Ministro degli Esteri Barrot ha definito “inaccettabile” il piano israeliano e la Cina opponendosi apertamente alle azioni militari in corso.
Chi parla chiaro rischia l’etichetta di antisemita. Quindi, per alcuni, meglio il compromesso, anche se puzza di sangue.
Si invocano i “due Stati”, ma uno viene progressivamente distrutto sotto le bombe. Si chiede “moderazione”, mentre i coloni avanzano. Si manda “aiuto umanitario”, ma solo a guerra fatta. Gaza brucia e noi ci copriamo il naso. Come se bastasse a non sentire l’odore della vergogna.
Ogni giorno che passa, il silenzio dell’Occidente diventa complicità. Ogni dichiarazione diplomatica, ogni condanna a metà voce, ogni frase “equilibrata” è un’altra pietra sulla tomba di chi muore senza che nessuno lo difenda. Gaza oggi è il volto nudo dell’ingiustizia globale, è la prova che i diritti umani valgono solo quando fanno comodo, è il test del nostro coraggio morale.
E lo stiamo fallendo.