“Lo Stato vuole uccidermi per 90mila euro.” Non è un titolo ad effetto, ma la frase pronunciata da Luigi Coppola, testimone di giustizia campano, nella sesta puntata del format “30 minuti con…”, condotto da Paolo De Chiara con il supporto del giornalista Antonino Schilirò.
Un’ora intensa, in diretta social, che ha messo a nudo le contraddizioni di un sistema che da un lato invoca la denuncia, e dall’altro condanna all’isolamento chi trova il coraggio di farla.
Coppola ha raccontato la sua esperienza di imprenditore vessato dalla camorra e la scelta coraggiosa di denunciare i clan Cesarano e Pesacane, portando all’arresto di oltre 32 affiliati. Una storia di dignità civile e senso dello Stato, che però si è scontrata con una burocrazia cieca e spesso ostile.
Nonostante le condanne definitive per associazione mafiosa, Coppola si è ritrovato a dover “restituire” 90mila euro ricevuti come supporto per un’attività imprenditoriale fallita – non per incapacità, ma per l’assenza di clienti spaventati dalla sua costante scorta armata. “Mi hanno lasciato solo – ha dichiarato – e ora mi trattano da debitore.”
Durante la puntata, è stato più volte denunciato il silenzio del sottosegretario Molteni, titolare della delega ai testimoni di giustizia, e l’assenza di risposte da parte della Commissione Parlamentare Antimafia e della Presidente Chiara Colosimo.
Nomi e cognomi, senza filtri, in una denuncia pubblica che suona come un atto d’accusa contro un sistema che, per stessa ammissione degli ospiti, sembra non volere più testimoni di giustizia.
Coppola ha tracciato anche una dura differenza tra la retorica istituzionale e la realtà quotidiana: “Lo Stato ci tratta come un costo, non come una risorsa. Non siamo matricole, siamo persone.”
La puntata si è chiusa con un invito rivolto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fratello di una vittima di mafia, affinché ascolti direttamente le voci dei testimoni di giustizia, oggi più che mai dimenticati.
E con l’annuncio della prossima puntata, che vedrà protagonista Gianluca Manca, fratello di Attilio Manca, per un’altra storia che “grida vendetta” nel silenzio assordante delle istituzioni.