«Sappiamo chi è Stato. E abbiamo le prove». È il messaggio inciso sul manifesto dell’Associazione 2 Agosto 1980 per il 2024, ed è anche l’eredità di una battaglia che non si è mai fermata. Una lotta civile, culturale, giudiziaria e personale, che oggi ha il volto, e la voce, di Paolo Lambertini, vice-presidente (e presidente designato) dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna, una delle pagine più buie della storia repubblicana.
Il 2 agosto 1980, nella sala d’attesa della seconda classe della stazione di Bologna, una bomba uccide 85 persone e ne ferisce oltre 200. La più grave strage avvenuta in Italia in tempo di pace. Paolo Lambertini, all’epoca quattordicenne, perse sua madre, Mirella Fornasari, impiegata amministrativa della società CIGAR. “Era andata al vecchio ufficio per chiudere la contabilità”, racconta con voce composta ma spezzata dalla memoria. «Fu l’ultima a essere trovata, l’ultima caricata sul bus 37, diventato simbolo tragico di quella giornata».
Una ferita che non si chiude mai.
La strage ha segnato l’intera vita di Paolo. «Sono cresciuto con mio padre, figlio unico, cercando un equilibrio che non ho mai del tutto ritrovato. Ma ho avuto accanto una rete affettiva forte, e l’Associazione 2 Agosto è diventata la mia casa civile», dice. La memoria, in lui, non è solo ricordo: è battaglia per la verità.
«Mia madre fu l’ultima ad essere trovata. L’ultima sull’autobus 37».
Ci racconta chi era sua madre?
«Lavorava per la CIGAR, la società che gestiva i punti di ristoro della stazione. Era un’amministrativa. Qualche mese prima l’avevano spostata in un altro ufficio, ma a inizio mese tornava nel vecchio stabile per chiudere la contabilità. Quel sabato mattina, il 2 agosto, era lì. E lì è rimasta. Fu l’ultima vittima ad essere trovata, verso le due e mezza di notte. Fu anche l’ultima a salire sull’autobus 37, quello che ha trasportato i corpi verso l’obitorio. È diventato un simbolo. Lei aveva 36 anni. Da bambino mi sembrava già anziana. Poi arrivi a quell’età e capisci che era una ragazza nel pieno della sua vita.»
Lei quanti anni aveva?
«Quattordici. Ho vissuto con mio padre, che ha cercato di fare da mamma, mentre io cercavo, come potevo, di fare da padre a lui. È stato un padre meraviglioso, ma profondamente segnato. Lo diceva anche apertamente: continuava a vivere solo per me. E poi, dopo quarant’anni, se n’è andato. Fumava tanto, non aveva più un progetto di vita. È una ferita che non si richiude mai».
«La mia normalità è stata questa: dolore, rabbia, memoria».
E come si sopravvive a una ferita così profonda?
«Con la fatica. Ma anche con la fortuna di avere amici, affetti, e un’Associazione che mi ha dato uno spazio per rielaborare il dolore. Ho potuto convogliare emozioni che non so nemmeno nominare: rabbia, smarrimento, solitudine. È stata la mia normalità, per quanto possa suonare assurdo. Ma non ho mai smesso di crederci. La memoria non è un rito, è un atto politico, civile. È una battaglia».

«Non parliamo di misteri. Parliamo di segreti. E sappiamo chi è Stato».
Negli anni, ha mai perso fiducia nella giustizia?
«Ho avuto fiducia, forse in modo ingenuo, ma non cieco. Le istituzioni sono fatte da persone. Alcune ci hanno tradito, altre ci hanno sorretto. Abbiamo visto giudici, ufficiali, agenti che ci hanno aiutato. Ma anche depistatori, omertosi, criminali in divisa. La fiducia è nei singoli, non nei Palazzi. È una fiducia misurata».
I depistaggi non sono finiti?
«No. Sono andati avanti per decenni. E anche di recente. Intercettazioni manomesse, prove modificate. Non siamo nel campo delle ipotesi. C’è chi ha ancora oggi interesse a coprire, a confondere, a deviare. Ma le sentenze recenti hanno fatto nomi precisi: Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato, Mario Tedeschi. Tutti con ruoli precisi. L’organizzazione, il coordinamento, la gestione del depistaggio».
I mandanti, dunque, ci sono?
«Sì. E la Cassazione lo ha detto. Non possiamo più parlare di misteri. Noi preferiamo il termine “segreti”. Perché un mistero è irrisolvibile. Un segreto, invece, può essere svelato. E noi li abbiamo svelati».

«Chi ha messo la bomba è libero. E nessuno si scandalizza più».
E gli esecutori?
«Valerio Fioravanti e Francesca Mambro sono liberi da anni. Hanno accumulato ergastoli. Ma oggi sono cittadini come tutti. C’è un’intercettazione in cui Gennaro Mokbel, affarista di estrema destra, parla di 1,2 milioni di euro pagati per ottenere la loro libertà. Ci piacerebbe che qualcuno approfondisse. Anche per rispetto alle 85 persone uccise».
«La foto con Ciavardini? Inaccettabile. E ancora nessuno si è indignato».
Che ha pensato vedendo la foto tra Chiara Colosimo (presidente della Commissione antimafia) e Luigi Ciavardini (condannato a trenta anni di reclusione come esecutore materiale della strage alla stazione di Bologna)?
«Che è inaccettabile. Quella foto è uno schiaffo. Non puoi guidare la Commissione antimafia se sei stata ritratta così, con un condannato per la strage di Bologna. Non ci sono giustificazioni. E soprattutto, nessuno si è indignato. Questa è la cosa più grave. Nessuno. Il silenzio è disarmante».
È cambiato qualcosa nel rapporto con le istituzioni?
«Non c’è un vero dialogo con l’attuale governo. Solo conflitto. A noi interessano i fatti, non le presenze simboliche. Vogliamo digitalizzazione gli atti, accesso totale alla documentazione, verità piena. Le passerelle non servono»,

«Abbiamo avuto giustizia? Sì. Ma non abbiamo ancora vinto».
Dopo 45 anni, cosa manca per completare il mosaico?
«Mancano altri nomi. Altri esecutori materiali. Si parla di 30 persone, forse di più. Alcuni sono già morti, altri no. E mancano ancora delle indagini sull’intreccio tra massoneria, mafia, servizi deviati. Un sistema che va oltre Bologna. Una rete di connivenze che ha funzionato allora e che continua oggi».
La più grande delusione?
«Che queste notizie non escano dai confini dell’Emilia-Romagna. Che i media non le raccontino. Che i giornali non le spingano in prima pagina. E che la gente non si indigni più. Quella è la nostra sconfitta più grande. Ci dicono che abbiamo avuto giustizia, ma io penso che, su altri fronti, abbiano vinto loro».
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