In Italia la libertà di stampa non muore: viene strozzata. Non con un colpo di pistola, ma con una querela, un contratto da fame, una telefonata “amichevole”, un editore che ti chiede di smussare gli spigoli. E quando ti abitui, hai già perso metà della battaglia.
È da questa ferita che parte la puntata di “30 minuti con…” dedicata alla libertà di stampa, con il direttore Paolo De Chiara alla conduzione e Antonino Schilirò in studio, insieme a due ospiti che ci mettono la faccia e il peso delle istituzioni: Vittorio Di Trapani, presidente della FNSI, ed Enzo Cimino, presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Molise.
“Siamo formalmente liberi, materialmente condizionati”
La puntata mette subito in chiaro una cosa: sulla carta è tutto perfetto. Lo dice chiaramente De Chiara nella sua introduzione. Abbiamo l’articolo 21, le regole deontologiche, il Testo unico dei doveri del giornalista, i principi di verità sostanziale, continenza, interesse pubblico.
Poi però c’è l’amara realtà: leggi bavaglio, restrizioni sull’informazione giudiziaria, querele temerarie, azioni civili con richieste milionarie, autocensura, precarietà, pressioni di editori e poteri forti.
Di Trapani: “Non archiviamo quel dato. È uno schiaffo”
Vittorio Di Trapani (Presidente FNSI) insiste su un passaggio cruciale: quei rapporti non vanno messi in un cassetto. Richiama le raccomandazioni europee, le regole, gli standard che dovrebbero proteggere il giornalismo. Nel ragionamento entra forte il tema delle SLAPP (azioni legali strategiche e abusive): cause e querele non per “ottenere giustizia” ma per ottenere silenzio. E il meccanismo si aggiorna: sul penale l’abuso si riconosce più facilmente mentre sul civile i numeri diventano “paura”.
Altro punto durissimo evocato in trasmissione: la tutela delle fonti e il tema dello spionaggio ai danni di giornalisti. Il messaggio è netto: senza fonti protette, l’inchiesta muore. E con lei muore il diritto dei cittadini a sapere.
“Sottoproletariato”: quando il precariato diventa censura strutturale
C’è una frase che resta addosso: il precariato giornalistico non è più una fase, è un sistema. E quando scrivi per “due, tre, cinque euro a pezzo”, non sei libero: sei ricattabile. Anche se nessuno ti ricatta esplicitamente. Di Trapani la mette giù senza zucchero: la dignità del lavoro è un pilastro della libertà. Se manca la base, la casa della democrazia balla. E la stampa, invece di essere cane da guardia, rischia di diventare cane da cortile: abbaia solo quando glielo consentono.
Cimino: il Molise come lente d’ingrandimento
Enzo Cimino (Presidente ODG Molise) porta il discorso sul territorio, dove spesso la libertà di stampa non viene minacciata con i riflettori ma con le abitudini: uffici stampa che non esistono, enti che preferiscono il “portavoce” per controllare il flusso informativo, e perfino paesi senza distribuzione di giornali. E qui arriva un concetto potente: desertificazione informativa. Se spariscono le redazioni, sparisce la vigilanza democratica. E in un’epoca di fondi, appalti, PNRR e soldi che scorrono, l’assenza di informazione locale non è un dettaglio: è un invito a nozze per corruzione e infiltrazioni.
Cimino, inoltre, insiste sulla necessità di riformare regole e accesso alla professione: una legge “vecchia”, percorsi confusi, e una domanda che suona come una stilettata: com’è possibile che per tante professioni esista un percorso lineare e per il giornalismo no?
Linguaggio, responsabilità e il “caso Feltri”
Nel dibattito entra anche il tema del linguaggio pubblico e della responsabilità di chi parla da un megafono nazionale. Cimino racconta il suo intervento critico sul turpiloquio nei talk: non moralismo, ma una constatazione semplice: se l’informazione scade in cabaret, perde credibilità e allontana il pubblico. Qui la puntata tocca una verità scomoda: oggi spesso la spettacolarizzazione divora il giornalismo.
Querele, processi mediatici e il diritto di cronaca
Altro snodo: il racconto di Cimino sul comunicato dell’Odg Molise dopo attacchi subiti dalla stampa locale per aver riportato una notizia di interesse pubblico (la richiesta di rinvio a giudizio per il presidente della Giunta regionale del Molise). Il punto non è “fare processi in tv”, ma ricordare una regola madre: se una notizia è vera, pertinente e scritta con continenza, il giornalista fa il suo mestiere. E qui torna l’aria pesante delle querele temerarie: anche quando vinci, spesso perdi lo stesso (tempo, serenità, soldi, energie).
Nel finale si apre il capitolo più politico: il pluralismo informativo e le concentrazioni editoriali. Viene citata la solidarietà ai giornalisti del gruppo Gedi e la preoccupazione per la tenuta del pluralismo. Il ragionamento si allarga anche al tema degli editori-parlamentari e ai potenziali conflitti d’interesse: quando chi legifera può controllare pezzi di informazione, la democrazia entra in una zona grigia.
Rai: servizio pubblico o campo di battaglia permanente?
La Rai servizio pubblico torna come nodo irrisolto: l’idea di una riforma che liberi la Rai dai partiti viene definita, in sostanza, difficilissima. Perché nessun governo, ieri come oggi, ha voluto togliere le mani. E quando il servizio pubblico non è davvero indipendente, la domanda diventa inevitabile: chi protegge i cittadini dall’informazione “a comando?”.
La domanda finale: libertà di stampa sotto attacco o già compromessa?
La chiusura è un pugno in pieno petto: per Di Trapani e Cimino la libertà di stampa è fortemente compromessa. Eppure, nonostante tutto, resta il filo pasoliniano che tiene insieme il senso: “gettare il corpo nella lotta”.
Senza giornalismo professionale, libero, un Paese smette di vedere. E quando non vedi, non scegli: subisci.






