Mi piace chiamarle le “occasioni del digiuno”, ovvero quelle opportunità fatali che il nuovo tempo – questo tempo di malcelata tediosità – ci offre in dono quasi come compenso al disagio o all’allarmante solitudine di tanti. E allora riepiloghiamo la memoria e tentiamo di farne traccia presente. Riafferriamo parole già dette – e scritte – per ripercorrere le storie degli uomini, in questo caso di artisti. Quelli che ho incrociato negli anni, ai margini dell’ascolto e con la curiosità dello sguardo. I loro ritratti.
Ascolta la Ciociaria amico / tu fuggitivo per strade forestiere / che vanno sempre altrove, ascolta / nella conchiglia remota del mio cielo / nella lagrima che goccia dal suo frutto / nel volo d’una foglia che t’arresta / al confine d’un bosco avventuroso / ascolta la Ciociaria alle sorgenti…
Sono i versi di Libero de Libero quelli che mi accompagnano per questa lingua di asfalto brunito che stabilisce la relatività del tempo e deforma – rompendone la continuità – le colline di faggi e l’umore dei giovani pioppi. Col sole stanco che ruba alla nebbia di novembre l’effimero primato dell’invisibilità.
Si va ai confini di questa terra, oltre le sorgenti del poeta. Eppure, se non fosse per la necessità di affidare ai luoghi un’identità nominale, questi “scorrerebbero” quasi in una sorta di originaria – e familiare – consequenzialità. Ma siamo altrove; lo suggeriscono i nomi e quella “romanità periferica” percettibile nel vociare di strada, nei sonnolenti avventori di un bar.
Segni è un crocevia temporale, ai margini di province e storie diverse, stretta in un alveo di umori differenti, pacati e sanguigni al contempo. Come ogni identità di confine.
Lo studio di Antonio Fiore è a valle del cuore antico della piccola città, ma non per questo ne ignora la storia o la geometria rigorosa che il tempo ha disposto restituendo al grigio e al rame delle case un ordine quasi naturale. O forse perché da questo osservatorio inusuale posto ai piedi della collina lui, l’artista, segue le traiettorie del sole nell’incedere pigro del giorno: il risveglio dell’ombra celata, il frastuono grasso della vita, il sonno delle voci. Il sole dunque; quella sorta di luce dinamica che penetra ovunque e riscalda. Soprattutto quando l’incontro è sostenuto dall’attesa e da una salutare curiosità.
E’ uno sguardo bonario quello di Antonio Fiore. Uno sguardo che genera innocenza e suggerisce tranquillità. Ma lo è di più, forse, quel parolare schietto, immune da cervellotiche e infauste disamine. Così Fiore accoglie i suoi visitatori – per nulla occasionali – e li conduce, per soste e proseguimenti, attraverso una storia singolare. La sua. La vicenda artistica di Fiore ricorda, per certi versi, quella dello scrittore Piero Chiara. L’autore de “Il pretore di Cuvio” e di quel piccolo capolavoro nel suo genere, come definì Carlo Bo “Il piatto piange”, giunse all’attività di romanziere in tarda età, quasi a sconfessare quel luogo comune che esige – oggi più di ieri – cifre narrative esasperatamente “giovanili”. Come per Chiara, l’approccio di Antonio Fiore con il mondo artistico avviene negli anni della maturità declinando dalla sua naturale passione di collezionista verso una più profonda e attiva “partecipazione”.
E come per Chiara il “vivere in provincia” di Fiore appare risorsa rigenerante e mai ingannevole per rappresentare e intensificate stimoli altrimenti sopraffatti da memorie e suggerimenti periferici.
“Le vie dell’arte sono infinite” scrive lo storico Giorgio Di Genova a proposito del pittore di Segni “mi riferisco alle vie che conducono alla pratica dell’arte. Le storie dei singoli ci raccontano di vocazioni precocissime o tarde, improvvise o meditate…La strada attraverso la quale Antonio Fiore è giunto alla pittura è stata quella dell’incontro con un artista. Da appassionato d’arte, Antonio di tanto in tanto acquistava quadri, per cui, quando un gallerista, lo stesso poi che nel ’78-’79 lo mise in contatto con le figlie di Balla, gli vendette un dipinto di Monachesi, egli ebbe l’impulso di farsi autenticare l’opera…e fu quell’incontro a funzionare per lui come chiamata sulla strada di Damasco.”
L’incontro con Sante Monachesi segna dunque l’esordio – seppur singolare e fuori dai rigidi schemi di un’ iniziazione – del percorso artistico di Fiore. Ed è lo stesso Monachesi a “ribattezzarne” l’identità forgiando, per l’allievo prediletto, lo pseudonimo di UFAGRA’ che racchiude, in una ludica sovrapposizioni di note, le iniziali dell’artista e la simbologia delle teorie AGRA’.
Lo studio di Segni accoglie, in una sorta di limpida consequenzialità, le tracce più significative dell’intera storia pittorica di Fiore restituendo ai nostri occhi le certezze e i possibilismi di una lettura generosamente ampia, come se l’artista avesse voluto custodire, in questo spazio, le anime di ogni successiva “virata”. Ecco allora le opere grafiche degli ultimi anni ’70, col movimento rotatorio dei reperti formali e l’intimo intento di attribuire ad essi il senso di una libertaria identità. Sono i segni di un originario sentire che accompagnerà l’autore negli anni a venire come impronte ineluttabili – e incancellabili – del proprio incedere.
I “quadri-messaggio”, immediatamente successivi, appaiono quale compendio generoso di una dialettica colma di tutte le componenti – umane e linguistiche – che sostengono la poetica di Fiore: i cromatismi estremi, sommatoria quasi empirica di colori atonali, nudi, vivi; il segno aguzzo proiettato per altitudini appena immaginate; e la parola, liberata tra gli angoli acuti del rosso e del giallo.
C’è dunque, in queste opere dei primi anni ’80, una sorta di “trilogia concatenante” capace di affidare alla campitura le valenze, le intuizioni, le gioiose affabulazioni dell’artista.
E c’è, nelle costruzioni visivamente appaganti, tutta una dimensione dell’innocenza che di fatto pervade, a tutto campo, l’opera di Fiore.
L’uso della scrittura, parallela e intrinseca al contempo, ne è esempio rituale. In quegli anni le “parole cromatiche” che accompagnano le forme hanno un duplice carattere: sussidiario dal punto di vista degli equilibri; simbolico nei termini di una più compiuta affermazione di intenti. Ma sono anch’esse, come i colori, elementi di devastante semplicità. Il recupero di una terminologia finanche bambinesca – libertà, pace, amore – rivela le gesta di una spiritualità intima, rigorosa, innocente appunto.
Ai grandi temi – e ai grandi drammi – della contemporaneità Antonio Fiore sembra rispondere con “disarmante nudità”, artistica e umana. Ecco perché il colore non necessita di ulteriori attribuzioni tonali; ecco perché la parola si fa rivoluzionaria nel paradosso di un linguaggio esasperatamente “comune”; ecco perché, infine, il senso di una innocente religiosità può manifestarsi nel dinamico tentativo del segno di trovare il suo alveo formale in un costante moto ascensionale.
C’è un’opera, in questo fecondo percorso visivo, che sembra registrare, più di altre, i ritmi e le attese dell’autore. Pace (198.) è la definitiva affermazione di quanto finora suggerito e il prologo, probabilmente, di un nuovo indirizzo. Lo spazio, segnato da un debordante messaggio racchiude in sé indizi prospettici e metafore cromatiche che sembrano inaugurare quella stagione della tridimensionalità che negli anni a seguire sarà prioritaria e incessante seppur per soluzioni mutanti.
Ma quest’opera suggerisce anche considerazioni meno umorali, improntate invero ad una relazionalità marcata con esperienze già consumate. In essa sembrano confluire – e configurarsi – la lezione storica del Futurismo, l’anima fluttuante di Monachesi, le frequentazioni fumettistiche della Pop Art, la tensione spaziale di Balla prima e di Mastroianni poi. D’altra parte la contemporaneità è anche – o soprattutto – il luogo di precedenti avventi, di contaminazioni, di riepiloghi più o meno diffusi.
Le opere di quel tempo rappresentano dunque una sorta di rivisitazione della memoria, pacata, lucida, dinamica.
La nuova “virata”, a cavallo degli anni ’80 – ’90, (basti pensare a Visioni dinamiche) ci restituisce un artista dal linguaggio autonomo, essenziale, felicemente orfano delle “zavorre” trascorse. La parola, fino ad allora supporto suggeritore e prospettico del dipinto, pare sopraffatta dalla consapevole certezza che ogni, ulteriore affermazione, può generarsi e prodursi nell’uso esclusivo delle “sagome” di colore. E’ il nuovo corso pittorico di Fiore, ovvero il tempo di una rinnovata dialettica che pur preservando un’appassionata e innegabile spiritualità, pone l’essenza cromatica al centro della narrazione. Un racconto colmo di tensioni in cui, come sostiene in un articolato saggio Rossana Boscaglia, “ la sua passione creativa è percorsa da una sorta di potente gioia”. E non è poco in una condizione temporale affollata di minime certezze e dubbi contaminanti.
Quando la luce pigra di questo novembre d’altre latitudini ci ricorda il tempo del ritorno ci accorgiamo di come, questo “viaggio”, sia bruciato rapidamente. E’ la premessa per un nuovo incontro ai margini di questa piccola città dove il sole ha deciso di donarsi alla luna.
Nel 1988 lo scrittore Domenico Rea scriveva ad Antonio Fiore: “Per intuito mi sono accorto che tu sei un pittore che non bari, non rubi, non scopiazzi. Ecco, se proprio vuoi questa è la considerazione che ho del tuo lavoro”.
Antonio Fiore, nato a Segni nel 1938, è considerato dalla critica specialistica l'erede dei futuristi dell'ultima generazione. Non si considera però un epigono del movimento marinettiano, bensí un continuatore dello spirito futurista, lo stesso che gli trasmisero direttamente alcuni protagonisti dell'ultimo Futurismo con i quali ebbe rapporti intensi e fecondi. Fu infatti Sante Monachesi nel 1978 ad indirizzarlo verso la ricerca post futurista facendolo aderire al Movimento AGRÀ che aveva fondato nel 1962, battezzandolo futuristicamente UFAGRÀ (Universo Fiore AGRÀ). Conobbe anche Francesco Cangiullo, famoso poeta parolibero futurista, che gli trasmise suggestioni per i contenuti delle opere della prima stagione. Con Elica e Luce Balla, le figlie del Maestro del Futurismo, il pittore di Segni e la sua famiglia hanno vissuto una lunga, cordiale e feconda amicizia tessuta anche fra i ricordi entusiasmanti della vicenda futurista del padre. Infine, ha avuto rapporti con Mino Delle Site e Osvaldo Peruzzi, futuristi dell'ultima generazione e, soprattutto, con Enzo Benedetto, futurista anche lui che con la Dichiarazione Futurismo Oggi del 1967 sancí la continuità ideale del Futurismo. A Fiore Benedetto lasciò idealmente il testimone della continuità dell'ideale marinettiano. Tali contatti con i futuristi sono documentati per la prima volta dalle pagine inedite di memorie scritte molti anni fa dalla moglie dell'artista, Maria Pia e riportati per la prima volta nel testo di Massimo Duranti, in occasione della grande antologica di Fiore al CERP, Centro Espositivo Rocca Paolina di Perugia che, pur non negando i debiti di Fiore verso il Futurismo, tende ad affrancarlo dall'etichetta di post futurista. La cosmopittura del pittore segnino viene in tale occasione ridefinita come un preciso linguaggio evolutivo di un'idea che esplora spazi siderei non conosciuti, dove l'artista immagina colori e forme fiammeggianti che fluttuano magmaticamente nel vuoto.
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2020-03-17 12:20:05
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