Dal latino “interruptio-onis” il termine interruzione richiama alla mente altri vocaboli, come sospensione, rottura, distacco, blocco, cessazione, separazione. Tutte parole che in qualche modo, e con diversa intensità, rimandano a una accezione negativa. Probabilmente è così. Ma a ben guardare esistono situazioni, contesti nei quali una interruzione, una rottura, una separazione sono il male minore o anche la via maestra da seguire per raggiungere una situazione migliore e più confortevole.
Gli esempi potrebbero essere moltissimi se analizziamo il nostro vivere quotidiano e le relazioni interpersonali: nel mondo del lavoro, all’interno delle relazioni di coppia, nei legami familiari. A volte anche con noi stessi si impone una rottura, l’interruzione di un comportamento autolesionista per poter assurgere a una condizione più vantaggiosa per noi.
Quindi sono moltissimi i contesti nei quali la parola “interruzione” viene ad assumere valenze differenziate, positive e negative, per chi la vive. Ma l’interruzione di cui voglio occuparmi in questa sede è una molto specifica, che riguarda le donne, il loro mondo più intimo e personale, la sfera della loro autodeterminazione: l’interruzione volontaria di gravidanza.
Si tratta di un evento altamente traumatico nella vita di una donna, frutto di scelte drammaticamente sofferte seppure a volte inevitabili. Nel nostro Paese l’IVG è diventata legale solo a partire dal 1978, con la Legge n. 194 (confermata dal Referendum del 1981), che ha depenalizzato e disciplinato le modalità di accesso all’aborto. Questa legge ha di fatto sancito che una gravidanza può essere interrotta solo se comporta un pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Quindi l’aborto è ammesso solo in quanto soluzione “terapeutica” di fronte ad un pericolo o danno fisico e/o psicologico per la donna. L’emanazione della Legge 194 del 1978 fu un grande risultato delle lotte condotte dalle donne in quegli anni di sconvolgimenti e di profondi cambiamenti della struttura della società italiana. Erano gli anni in cui venne approvata la legge sul divorzio (1970) e la riforma del diritto di famiglia (1975), scardinando alcuni pilastri di una struttura sociale pesantemente retrograda, fondata sul più bieco maschilismo.
Tuttavia, nel corso degli anni l’applicazione della legge sull’IVG è andata assumendo via via connotati preoccupanti, rilevando dati non confortanti sul piano dell’accesso al diritto all’aborto e su quella della effettiva applicabilità della stessa legge. In Italia infatti, l’applicazione di questa legge è resa difficoltosa, e in alcuni casi, impossibile, a causa dell’obiezione di coscienza cui si appellano molti medici ginecologi. Secondo la “Relazione Ministro Salute attuazione Legge 194/78 tutela sociale maternità e interruzione volontaria di gravidanza – dati definitivi 2017” (presentata in Parlamento a gennaio 2019) il ricorso alla interruzione volontaria di gravidanza presenta un trend decrescente, -4,9% rispetto al dato del 2016 e -65,6% rispetto al 1982, anno in cui si è osservato il più alto numero di IVG in Italia pari a 234.801 casi. Ma questo calo, che non presenta un andamento consono ad una fisiologica contrazione del fenomeno, è dovuto ad altri fattori. Circa il 68% dei medici si dichiara obiettore, di fatto negando alle donne il diritto all’accesso all’aborto, sebbene garantito da una legge dello Stato.
Ci sono regioni in cui la percentuale di medici obiettori sfiora il 90%, ratificando la morte della legge 194/78. Quello che da più parti le organizzazioni femminili, ma anche associazioni a difesa dei diritti, come l’Associazione Luca Coscioni, commentano a gran voce è che di fatto nel nostro Paese la legge 194/78 è sotto attacco, tra obiettori e chiusura dei consultori, le donne sono sempre più spaventate di recarsi presso le strutture sanitarie per chiedere un intervento a cui hanno diritto per legge.
Questa assurda situazione di “illegalità” legittimata dallo Stato, porta le donne a ricorrere all’aborto clandestino, con tutti i rischi che questo comporta. Quelle che hanno i mezzi economici, fanno ricorso a cliniche private, mentre chi quelle risorse non le ha corre i pericoli più gravi. Stiamo quindi tornando a grandi passi verso la situazione in essere ormai più di quaranta anni fa, quando quella legge venne voluta con forza dalle donne proprio per smantellare il traffico dell’aborto clandestino.
Qui allora l’interruzione veste un altro significato, che è quello di sospensione del diritto, blocco della libertà di autodeterminazione faticosamente conquistata con quella legge, rottura del rapporto di fiducia fra cittadino e Stato, garantito proprio dalle leggi. Interruzione che da fatto privato (se intesa come interruzione di gravidanza) diventa fatto pubblico e anche politico (se intesa come sospensione del diritto).
Un fenomeno che deve farci riflettere tutti sul fatto che nulla è da considerarsi scontato e garantito, soprattutto in tema di diritti, e che oggi, come quaranta anni fa, le donne ancora una volta sono sotto attacco, nella loro capacità di autodeterminarsi e di avvalersi di diritti sanciti giuridicamente, ancora sotto scacco di una società troppo impregnata di maschilismo e di controllo sul corpo delle donne.
uploads/images/image_750x422_5ea1913f3dbfc.jpg
2020-04-26 16:25:43
49