Nel 1943, alla vigilia dell'occupazione alleata della Sicilia, la mafia rifece la sua comparsa nell'Isola, più agguerrita che mai. La lotta condotta dal fascismo contro il fenomeno mafioso aveva avuto, come già si è detto, risultati apparentemente efficaci. La energia dimostrata in quel periodo dagli organi di polizia e dalle gerarchie pubbliche aveva guadagnato allo Stato ampi consensi da parte dei ceti dirigenti e sembrava aver fatto dimenticare che il prezzo del successo (che si riteneva) ottenuto era anche costituito dalla soppressione delle libertà democratiche e delle competizioni elettorali.
Ora che il regime fascista volgeva alla fine e che gli insuccessi militari svelavano al popolo il tragico volto della dittatura, diveniva sempre più chiaro per tutti che il prefetto Mori e i suoi uomini non sempre avevano agito nel rispetto delle regole legali e che i successi nella lotta contro la delinquenza, favoriti dall'acquiescenza della Magistratura e celebrati dai suoi rappresentanti nei loro discorsi ufficiali, erano stati ottenuti anche col ricorso ad arbitri ed abusi di ogni genere. In troppi casi, le concessioni e le dichiarazioni di accusa erano state estorte mediante vere e proprie torture, gli arresti e le perquisizioni erano stati operati senza discriminazioni di sorta, molti innocenti erano stati privati della libertà personale, ed era accaduto di regola che gli imputati, una volta arrestati, venissero trattenuti nelle stazioni di polizia per intere settimane e messi a disposizione del giudice con enorme ritardo e sulla base di prove prefabbricate e non sempre attendibili.
Man mano che cresceva nella popolazione la speranza di un rapido e definitivo ripristino delle libertà democratiche, i metodi polizieschi e le violazioni della legalità diventavano intollerabili e ne appariva intollerabile lo stesso ricordo; ciò tanto più che la lotta del fascismo contro la mafia, se aveva indubbiamente conseguito in superficie apprezzabili risultati, non era tuttavia riuscita nell'intento di colpire il male alle radici, di rimuovere le cause o almeno di delineare un efficace programma di rimedi, che non si riducessero a una mera azione repressiva.
Inoltre, le iniziative poliziesche non erano state nemmeno sufficientemente imparziali, ma avevano colpito solo una parte dei mafiosi, e certo non i più importanti. Così, per esempio, Calogero Vizzini, che nel dopoguerra avrebbe avuto nella mafia una posizione di primo piano, era sì stato inviato al confino nel 1925, ma successivamente aveva potuto vivere tranquillamente, attendendo tempi migliori e preparando le condizioni necessarie per un dominio incontrastato su una larga zona della Sicilia.
È comunque evidente che non furono certo le incongruenze e le insufficienze della lotta del fascismo contro la mafia a determinarne nel dopoguerra la clamorosa rinascita; esse ne furono piuttosto la premessa e ne favorirono la ripresa solo nel senso che le illegalità e le violenze arbitrarie, a cui la Polizia
aveva talora ispirato i propri metodi durante di ventennio fascista, finirono per suscitare ed esaltare una posizione rivendicatoria non solo nei perseguitati politici, ma anche in tutti coloro che erano stati confinati o condannati per reati comuni o di stampo mafioso.
D'altra parte, l'esperienza fascista dimostrò ancora una volta, dopo il tentativo compiuto da Nicotera alla fine del secolo XIX, come l'uso della forza, anche se momentaneamente coronato da successo, non sia tuttavia (almeno da solo) un utile strumento per combattere e sconfiggere la mafia. Nessuno come i mafiosi è pronto a piegarsi di fronte all'atteggiamento deciso dal potere costituito, per poter poi rialzare il capo, non appena sia passato il momento della tempesta. Così avvenne puntualmente anche alla vigilia della caduta del fascismo e della sconfitta militare.
I fatti di questa rinascita furono molteplici e di ordine diverso. Bisogna cercare di individuarli, in questa sede di ricostruzione storica, per poter meglio capire quali siano le cause del fenomeno mafioso e quanto profonde siano le sue radici, se tali e tanti rivolgimenti sociali, politici e istituzionali, non ne hanno scalfito la potenza e se i mafiosi dopo parecchi lustri di silenzio e di quiescenza, furono capaci all'indomani della liberazione (come se nulla fosse accaduto) di costituire, nelle zone occidentali della Sicilia, una rete fittissima di affiliati e di relazioni, con un impianto di tale solidità, che sarebbe stato nel futuro una impresa difficilissima, e non ancora portata a termine, tentarne lo smantellamento.
L'occupazione alleata e la mafia.
Nei primi anni di guerra, la situazione economica e sociale dell'Isola appariva gravemente compromessa e presentava, in molti sensi, note accentuate di arretratezza rispetto al resto del Paese. Infatti, solo un terzo della popolazione era occupato e il reddito medio degli abitanti era del 35 per cento inferiore a quello nazionale.
Il numero degli analfabeti era elevatissimo, mentre era bassissimo l'indice della consistenza industriale, riguardo sia alle imprese che agli addetti. Le abitazioni erano già insufficienti all'inizio della guerra e molte di quelle esistenti furono distratte dagli eventi bellici; allo stesso modo andarono danneggiati molti impianti industriali e una parte consistente della rete stradale e di quelle portuali. I servizi pubblici infine presentavano gravi carenze e le loro condizioni andarono man mano peggiorando, tanto che – come risulta da una pubblicazione del Centro democratico di cultura e di documentazione – «2,9 milioni di persone usavano acqua proveniente da acquedotti o pozzi artesiani, 141.000 si approvvigionavano da cisterne, 88.000 da pozzi aperti, 410.000 da sorgenti naturali, tutte peraltro in qualche modo controllate dal comune, mentre molte altre decine di migliaia di persone si approvvigionavano da fonti assolutamente incontrollate».
In mancanza di altre risorse la stragrande maggioranza della popolazione viveva con i redditi dell'agricoltura, ma per di più i guadagni erano miseri, anche perché la struttura agricola riportò fin dall'inizio gravi danni a causa della guerra. Secondo le statistiche dell'epoca, infatti, il 57 per cento del territorio agricolo dava un reddito inferiore alle diecimila lire, mentre il valore della produzione agricola in Sicilia era soltanto di 881 lire pro capite.
Inoltre il 27 per cento della proprietà fondiaria, per complessivi 500.000 ettari, aveva i caratteri del latifondo, con una percentuale quindi notevolmente superiore alla media nazionale, che raggiungeva il 17,7 per cento.
In questa situazione di indigenza, di vera e propria miseria e di mancanza di fonti di lavoro, era naturale che trovasse nuovo alimento il fenomeno della delinquenza; specie nelle zone occidentali dell'Isola, i delitti più gravi andarono sensibilmente aumentando tanto che nel 1942 furono commessi nelle province di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta 87 omicidi, 75 rapine e 5 estorsioni.
Peraltro la latitanza di un numero sempre maggiore di delinquenti e la formazione di bande di fuorilegge, anche armate, fornirono di nuovo alla mafia il suo naturale strumento di azione; i mafiosi, che erano in libertà tornarono a poco a poco ad esercitare le funzioni di una volta, e dando protezione ai latitanti si misero in condizione di avere nuovamente a disposizione un utile e docile mezzo di manovra per il raggiungimento dei propri scopi illeciti.
Ma furono altre – e in un primo tempo connesse all'occupazione alleata – le cause vere della folgorante ripresa mafiosa. Pare ormai accertato che qualche tempo prima dello sbarco angloamericano in Sicilia numerosi elementi dell'esercito americano furono inviati nell'Isola, per prendere contatti con persone determinate e per suscitare nella popolazione sentimenti favorevoli agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a Casablanca l'occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò una apposita squadra (la Target Section), incaricandola di raccogliere le necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della «preparazione psicologica» della Sicilia.
Fu così predisposta una fitta rete informativa, che stabilì preziosi collegamenti con la Sicilia, e mandò nell'Isola un numero sempre maggiore di collaboratori e di informatori.
Un attento cronista di quegli anni così annota alcuni degli episodi più significativi della vasta operazione: «a Castelvetrano cominciò a funzionare un'emittente clandestina; un'altra a Palermo, in un appartamento del centro, e l'agente americano era una donna.
C'era pure un verduraio a Pachino, già parecchi mesi prima dell'invasione, un certo Gaspare, che andava in giro con la sua carretta per il paese e le campagne e parlava un dialetto strettissimo, ma, quando giunsero gli alleati, riapparve in divisa inglese, e divenne poi il primo governatore dell'AMGOT a Rosolino. A Gela, due operai che lavoravano alla diga del Dissuni, furono rivisti, dopo, in uniforme inglese: erano stati paracadutati in Sicilia con una radio trasmittente, che avevano fatto funzionare durante lo sbarco.
A Catania, un lustrascarpe che per mesi aveva esercitato il proprio mestiere davanti alla sede della federazione fascista, ricomparve poi in divisa di maggiore dell'esercito americano; e perfino un ufficiale dell'aviazione, che disimpegnava incarichi amministrativi in un aeroporto americano, era in realtà un ufficiale americano» (Salvo Di MATTEO, Anni roventi — La Sicilia dal 1943 al 1947, Palermo 1967, pag. 76).
Ma l'episodio certo più importante ai fini che qui interessano è quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco da Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di origine siciliana. Di questo episodio si sono frequentemente occupate le cronache e la pubblicistica, con ricostruzioni più o meno fantasiose, ma la verità sostanziale dei fatti non sembra contestabile, se si ricorda che il senatore Estes Kefauver così si espresse al riguardo nel rapporto conclusivo dell'inchiesta della Senate Crime Investigatory Committee: «Durante la seconda guerra mondiale si fece molto rumore intorno a certi preziosi servigi che Luciano, a quel tempo in carcere, avrebbe reso alle autorità 'militari in relazione a piani per l'invasione della sua nativa Sicilia. Secondo Moses Polakoff, avvocato difensore di Meyer Lansky, la Naval Intelligence aveva richiesto l'aiuto di Luciano, chiedendo a Polakoff di fare da intermediario. Polakoff, il
quale aveva difeso Luciano quando questi venne condannato, disse di essersi allora rivolto a Meyer Lainsky, antico compagno di Luciano; vennero combinati quindici o venti incontri, durante i quali Luciano fornì certe informazioni».
Si comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano state le vie dell'infiltrazione alleato in Sicilia prima dell'occupazione. Il gangster americano, una volta accettata l'idea di collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi capomafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi, per far trovare un terreno favorevole agli elementi dell'esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia per preparare all'occupazione imminente le popolazioni locali.
La mafia rinascente trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenze occupanti. Contemporaneamente, la mafia si preparava a stabilire, all'interno dell'Isola, i necessari collegamenti sul terreno politico col Movimento separatista, il solo raggruppamento di ispirazione antifascista che avesse già nella clandestinità una propria rete organizzativa e che si trovasse quindi in condizioni di assumere subito, al momento dell'occupazione, dirette responsabilità anche amministrative.
Infatti, i gruppi antifascisti operanti nell'Isola non pensarono a costituirsi con la necessaria prontezza in comitati di liberazione, ma continuarono a muoversi attraverso incontri informali e disorganici, ognuno nel chiuso della propria ideologia, senza cercare contatti e rapporti che portassero alla formazione di una vigorosa forza politica da contrapporre subito anche ai disegni degli occupanti.
Invece, negli ultimi anni del regime fascista, alcuni esponenti della vecchia classe dirigente siciliana, che avevano mantenuto viva sotto le ceneri un'aspirazione antica d'indipendenza e di separazione dell'Isola dal resto dell'Italia, si erano impegnati ad organizzare un proprio fronte di resistenza, che cercava di convogliare nelle sue file, più che gli antifascisti, gli scontenti del fascismo, i disillusi del regime, coloro che ancora credevano nel mito dell'Unità attuata dal settentrione a scapito delle popolazioni meridionali e in particolare di quelle siciliane e che quindi giuravano nell'effettiva possibilità di una autosufficienza economica e sociale della Sicilia.
D'altra parte, i capi indipendentisti pensavano di raggiungere il traguardo secessionista con l'aiuto delle forze di occupazione, sicuri come erano che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avrebbero favorito la loro aspirazione di vedere staccata la Sicilia dall'Italia.
Si trattava in verità di idee fondate, almeno in parte, non soltanto sui desideri di chi li coltivava, ma anche su qualcosa di concreto. Gli angloamericani infatti vedevano nel Movimento separatista, quando l'Italia era ancora una potenza nemica, un valido alleato e cercarono perciò, in tutti i modi, di prendere contatti con i suoi capi.
Così, per esempio, nell'aprile 1943, il colonnello britannico Handack fu ospite clandestino dell'onorevole Arturo Verderame e nello stesso mese Charles Potetti, che poi sarebbe stato governatore di Palermo, sbarcò in Sicilia e riuscì a stabilire contatti con alcuni latifondisti di fede separatista, come Lucio Tasca Bordonaro e la duchessa di Cesarò.
Più in generale, il giornalista Gavin Maxwell, raccontando questi episodi, doveva scrivere: «Sin dal luglio, a pochi giorni dallo sbarco alleato, il servizio speciale americano aveva naturalmente fatto il possibile perché questo movimento (il separatismo) si rafforzasse in modo da assicurarsene una piena cooperazione contro l'Italia e contro le quattro divisioni tedesche che stavano a difesa della Isola».
Non c'è perciò da meravigliarsi se pochi giorni dopo la conquista di Palermo e a poche ore, si può dire, dalla caduta del fascismo, il gruppo promotore del separatismo poteva lanciare un ambizioso proclama, col quale, dopo avere denunziato formalmente le responsabilità della monarchia sabauda e del fascismo, chiedeva formalmente «ai governi alleati di consentire la costituzione di un governo provvisorio siciliano, al fine di predisporre ed attuare un plebiscito perché si dichiari decaduta in Sicilia la monarchia sabauda nella persona di Vittorio Emanuele III e suoi successori e la Sicilia sia eretta a Stato sovrano indipendente con regime repubblicano».
Nacque così formalmente il Movimento indipendentista siciliano (MIS) guidato da Andrea Finocchiaro Aprile, Antonino Varvaro, Lucio Tasca, Antonio Canepa, Concetto Gallo, i duchi di Carcaci, il barone Stefano La Motta. Larghi strati popolari si riconobbero, specie all'inizio, nel separatismo, perché lo videro rendersi interprete della loro antica aspirazione all'autogoverno.
In tutti i momenti di crisi, nel 1860 come nel 1893, le popolazioni siciliane avevano riproposto le loro istanze di autonomia dal Governo centrale.
Anche nel 1943, il popolo siciliano vide nella caduta del fascismo il crollo dello Stato accentratore e poliziesco, dello Stato che si era sempre opposto alle sue richieste di giustizia sociale e di autogoverno.
È naturale quindi che la fine del fascismo e correlativamente la mancata tempestiva organizzazione dei grandi partiti democratici favorissero in principio una sincera adesione delle masse popolari al movimento e alle istanze separatiste. Ben presto però i proprietari terrieri, preoccupati delle iniziative prese dal Governo nazionale per avviare una nuova politica agraria, impugnarono saldamente la bandiera separatista e non esitarono a distorcere ai propri fini i sentimenti più sinceri dei siciliani.
I miti dell'indipendenza, dello sfruttamento della Sicilia da parte dei settentrionali, del tradimento consumato ai danni del popolo al momento dell'unificazione, furono abilmente sfruttati dai capi del Movimento per impedire che la rinascita democratica potesse sacrificare i loro privilegi e interessi, in sostanza per evitare ancora una volta, secondo la linea di una tradizione storica che non aveva conosciuto interruzioni, l'accesso alle terre dei contadini.
Fu proprio questo impegno programmatico e la comune attività svolta per la preparazione psicologica dell'Isola e l'occupazione alleata che spinsero la mafia ad allearsi, sia pure per breve tempo, con il Movimento separatista.
È vero che in tempi piuttosto recenti, alcuni esponenti del MIS hanno cercato di minimizzare la portata del fenomeno, riducendolo al livello di sporadiche adesioni non sollecitate; e può anche ammettersi che la mafia, com'è suo costume, non abbia manifestato grande entusiasmo. per il Movimento e abbia soltanto mirato a ricavarne, al momento opportuno, le maggiori utilità, pronta quando se ne fosse presentata l'occasione, a cambiare bandiera e a schierarsi con i più forti.
Resta comunque il fatto che nel 1943 i capi separatisti e alcune cosche mafiose conclusero una vera e propria intesa, nell'intento di difendere interessi che ritenevano comuni e allo scopo di conquistare insieme, per i propri fini non sempre leciti, cospicue posizioni di potere all'ombra della iniziale protezione alleato.
Questa intesa fu raggiunta mediante la partecipazione alle riunioni e alle azioni separatiste di esponenti mafiosi di primo piano e trova un'attendibile documentazione in fonti di vario genere, anche di natura ufficiale. Lo stesso Calogero Vizzini, il «grande zio» della nuova mafia, il 6 dicembre 1943 partecipò al primo convegno regionale clandestino dei separatisti a Catania ed ostentò successivamente la sua fede indipendentista, portando all'occhiello la «Trinacria», che era il distintivo del Movimento.
Anche altri capimafia, come Gaetano Filippone, Paolino Bontà e Genco Russo, non nascosero le loro inclinazioni e si fecero fotografare mentre partecipavano a manifestazioni indipendentiste.
Dal canto suo, il generale dei Carabinieri Amedeo Branca scrisse testualmente in un rapporto segreto del 18 febbraio 1946: «II movimento agrario separatista siciliano e la mafia da diverso tempo hanno fatto causa comune; anzi, i capi di tale movimento, tra i quali don Lucio Tasca, si debbono identificare per lo più con i capi della mafia nell'Isola»; e in un altro rapporto aggiunse: «il La Manna (un capo separatista) ha affermato, la sera del suo arresto, che era stato chiamato dal Tasca Giuseppe, per ritirare quattrocento manifestini da portare al cavaliere Vizzini Calogero.
Ha affermato inoltre che il duca di Carcaci aveva come collaboratori diretti Tasca Giuseppe, il barone La Motta, Vizzini Calogero».
La confluenza dei settori della mafia nel Movimento indipendentista ne rafforzò in modo sensibile le iniziative e la capacità di penetrazione tra le popolazioni dell'Isola, mentre da parte sua il governo di occupazione, tenendo fede alle promesse della vigilia, si affrettò a consegnare l'amministrazione dell'Isola ai militanti del separatismo, mettendoli così in condizione di esercitare sui cittadini un potere reale e un'influenza spesso decisiva.
Infatti, man mano che le forze alleate occupavano l'Isola, procedendo da sud-ovest verso l'interno, e poi verso oriente, i prefetti e i podestà, che non avevano abbandonato l'Isola, furono destituiti dalla carica e sostituiti con nuovi amministratori graditi agli alleati.
In molti dei 357 comuni siciliani furono insediati come smelaci, a partire dai comuni occidentali, uomini politici separatisti, e tra loro anche autentici mafiosi, come avvenne tra gli altri per Calogero Vizzini, nominato sindaco di Villalba.
Anche a Palermo, il 27 settembre 1943, venne solennemente insediata la nuova Giunta comunale, presieduta da Lucio Tasca, uno dei maggiori esponenti separatisti, che successivamente il generale Branca non avrebbe esitato a qualificare nel suo rapporto come un vero e proprio capomafia.
In questo modo, i mafiosi tornavano alla ribalta, assumendo posizioni di potere o direttamente o per interposta persona, attraverso quegli esponenti separatisti, che erano ad essi legati da vincoli non solo ideologici; inoltre, i loro rapporti con gli alleati, o meglio con gli emigrati di origine siciliana che le forze di occupazione avevano portato con sé e che spesso erano diventati consulenti delle autorità militari, misero i mafiosi in condizione di ottenere vantaggi cospicui di ogni genere e favorirono inoltre (sul presupposto che si trattasse di perseguitati politici) la riabilitazione di molte persone che erano state condannate o confinate per reati comuni.
Al riguardo, la Commissione ha compiuto ogni sforzo (come già risulta dalla relazione settoriale sui rapporti tra mafia e banditismo), per accertare con la maggiore precisione possibile quali furono le relazioni tra le forze di occupazione e gli esponenti mafiosi, e per stabilire in particolare se la riabilitazione o addirittura l'impunità di determinati personaggi della malavita siciliana siano state l'effetto di un accordo segreto stipulato al momento dell'armistizio.
Purtroppo, l'impegno della Commissione non è stato coronato dallo sperato successo, per l'indisponibilità di documenti ufficiali, che servissero a ricostruire nei particolari e nell'accennata prospettiva quel periodo travagliato della nostra storia.
È comunque fuori discussione, per quanto prima si è detto, che la condotta degli alleati, prima e dopo l'occupazione, costituì un fattore di primaria importanza per la ripresa nell'Isola dell'attività mafiosa e che il movimento politico separatista, cui si appoggiò inizialmente il governo militare alleato, rappresentò una comoda copertura per le spregiudicate infiltrazioni manose e insieme lo strumento di cui inizialmente si servì il ceto dominante per la difesa dei suoi interessi.
È altrettanto indubbio che gli alleati si comportarono nel modo accennato, per finalità esclusivamente o prevalentemente militari. Nel momento in cui l'Italia era ancora una potenza nemica, era interesse vitale degli angloamericani, guadagnarsi l'appoggio di una classe dirigente che potesse contrapporsi al Governo italiano e che fosse eventualmente capace di organizzare e dirigere, qualora se ne fosse presentata l'occasione, un movimento di resistenza.
Ma le buone intenzioni purtroppo furono sopraffatte dagli avvenimenti, e l'azione degli alleati servì almeno in parte, a ridare forza alla mafia, a restituirla, con nuove energie, alla sua funzione di guardia armata del feudo, a creare infine le premesse di quel collegamento tra mafia e banditismo, che avrebbe insanguinato per anni le pacifìche contrade dell'Isola.
Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976
Per approfondimenti:
Prima parte, venerdì 27 marzo 2020: MAFIA, le origini remote
Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020: La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia
Terza parte, venerdì 10 aprile 2020: Le attività mafiose
Quarta parte, venerdì 17 aprile 2020: I mafiosi
Quinta parte, venerdì 24 aprile 2020: Lo Stato di fronte alla mafia
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2020-05-01 16:31:35
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