Si è visto nel paragrafo precedente che la democrazia prefascista, si schierò dalla parte della classe dominante, abbandonando nelle sue mani la massa dei contadini e riponendo nel cassetto tutti i progetti di una riforma agraria che servisse a smantellare, nei fatti e non soltanto con la declamazione delle leggi, il feudo siciliano.
Successivamente, durante il tormentato periodo del primo dopoguerra, le forze cattoliche e socialiste cercarono di portare avanti un programma di rinnovamento sostanziale della politica agraria e, tra l'altro, nel 1919, i deputati cattolici presentarono in Parlamento un progetto di legge per lo smantellamento del latifondo attraverso la quotizzazione e l'esproprio.
Ma l'avvento del fascismo disperse completamente i frutti, o, forse meglio, le speranze di questo patrimonio di lotte e di progresso in agricoltura, e di riforme che toccassero la struttura del latifondo non si sentì più parlare, tanto che dopo più di venti anni di politica fascista, la terra in Sicilia era ancora nelle mani di pochi.
Come già si è ricordato, infatti, all'indomani dell'occupazione alleata, circa il 27 per cento della proprietà fondiaria aveva nell'Isola la struttura del latifondo, contro il 17,7 della percentuale nazionale. Secondo le statistiche dell'epoca, le quote maggiori di superficie latifondistica si trovavano nelle zone orientali dell'Isola, dove minore era l'influenza mafiosa, ma in queste stesse zone, accanto alle grandi proprietà, si (registrava un intenso frazionamento fondiario ed era particolarmente diffusa, con un'accentuata polverizzazione dei fondi, la piccola proprietà contadina.
Ad occidente invece la proprietà privata fondiaria, anche quando non aveva le dimensioni del latifondo, presentava un forte accentramento ed era molto diffuso il sistema del fitto (o gabella). Si spiega perciò, proprio in relazione a questo tipo di struttura socio-economica, come la mafia nel dopoguerra riprese il sopravvento, al pari di quanto era avvenuto nel passato, soprattutto nelle province occidentali dell'Isola, anche se non sono consentite al riguardo eccessive schematizzazioni e se non mancarono, negli anni successivi alla caduta dal fascismo, notevoli infiltrazioni mafiose nella provincia di Messina.
Ancora una volta, più che d'estensione del latifondo, fu la frequenza con cui i proprietari ricorrevano alla gabella a costituire il terreno di elezione della mafia. Infatti la funzione mafiosa tipica, che riassumeva nei suoi caratteri essenziali tutte le altre, era stata nel passato l'intermediazione parassitaria, e nessuno meglio del gabellotto si trovava in condizione di esercitarla, in una società prevalentemente agricola, come era in quei tempi quella siciliana.
Con la caduta del fascismo, il mafioso della gabella riprese di nuovo a svolgere il suo ruolo, imponendo con la forza, la propria presenza, sostituendosi spesso ai proprietari e perseverando con la tenacia nello scopo di sempre, di tenere a freno (a qualunque costo ed anche con da violenza) le rivendicazioni contadine.
Accanto ai gabellotti, tornarono sulla scena le schiere di soprastanti, di campieri, di guardiani, in una parola di tutti coloro che i proprietari incaricavano di amministrare le proprie terre e di proteggerle dalle ruberie dei piccoli delinquenti, ma soprattutto dalle pretese dei contadini. Non si tratta, come potrebbe sembrare, di affermazioni generiche e tralaticie, prive di un concreto riscontro nei fatti. Esiste al contrario una vera e propria mappa della presenza mafiosa nel feudo, o meglio ai margini dal feudo, in quegli anni immediatamente successivi all'occupazione alleata della Sicilia, e basta qui ricordare alcuni esempi, per coglierne l'innegabile evidenza storica e la stessa dimensione del fenomeno.
Così, a Corleone, un centro agricolo del palermitano, patria di Michele Navarra e di Luciano Leggio, il feudo Donna Beatrice era tenuto in gabella dal noto capomafia Carmelo Lo Bue, mentre i pregiudicati mafiosi Michele Pennino, Mariano Sabella, Biagio Leggio erano gabellotti di tre feudi non meno importanti, e dal canto suo Francesco Leggio, altro mafioso, era soprastante del feudo Sant'Ippolito di 415 ettari.
Perfino Luciano Leggio divenne in quegli anni gabellotto del feudo Strasatto, quando già era colpito da mandato di cattura par essere stato accusato di gravissimi reati.
A Roccamena pericolosi mafiosi, come i fratelli Raimondi; Cirrincione; Leonardo, Giordano e Gioacchino Casato; Vincenzo Collura; Michele Bellomo e Antonio Ganci erano tutti gabellotti dei feudi esistenti nella zona e situazioni analoghe si ripetevano a S. Giuseppe Jato, a Marameo, a Contessa Entellina, a Belmonte Mezzagno e in pratica in tutti i comuni agricoli dell’entroterra della Sicilia occidentale.
Sarebbe impossibile (o forse inutile) fare qui l'elenco completo di tutti i rapporti del genere di quelli citati, ma non si può a fare a meno di ricordare – tra gli episodi più significativi del fenomeno – che a Villalba Calogero Vizzini era il gestore del feudo Miccichè, che a Mussameli i Lanza di Trabia affidarono il feudo Polizzello a Giuseppe Genco Russo, che Salvatore Malta prese in affitto il feudo Vicarietto, Vanni Sacco il feudo Parrino, Barbacela le terre di Ficuzza nella zona di Godrano e Joe Profaci il feudo Galardo.
Il fenomeno si spiega, considerando che gli agrari erano in quei tempi preoccupati della ripresa, sempre più vivace, delle rivendicazioni contadine, sostenute questa volta dalle forze politiche unitarie che si andavano poco a poco riorganizzando.
Il Movimento separatista fu, sul piano politico, lo strumento di cui i grandi proprietari pensarono di servirsi per consolidare il sistema economico che li favoriva e per impedire che qualcosa mutasse; ma sul piano dei fatti, degli avvenimenti di ogni giorno, era ancora la mafia l'alleata più valida per tenere testa alle pressioni dei contadini e dei braccianti, per far fronte alla spinta della miseria, magari con l'uso della violenza più efferata.
La rinascita della mafia infatti coincise tra il finire del 1943 e ili 1944 con un aumento impressionante dei reati di stampo tipicamente mafioso nelle quattro province occidentali dell'Isola. Basti pensare che nel 1944 furono commessi 245 omicidi in provincia di Palermo, 154 in provincia di Trapani, 83 in quella di Agrigento e 44 in provincia di Caltanissetta.
Naturalmente, non si trattò in tutti i casi di reati riconducibili direttamente alle iniziative della mafia; per molta parte, quei reati furono commessi dai fuorilegge che allora infestavano le montagne dell'Isola e che avrebbero dato origine, diventando sempre più numerosi e agguerriti, al sanguinoso fenomeno del banditismo.
Ma anche se non li commise direttamente, è certo che fu la mafia a favorire col proprio comportamento l'aumento dei delitti, in particolare dando ricetto ai banditi, sviando le indagini della Polizia, creando in molti paesi un clima decisamente contrario agli interventi degli organi statali e infine intrecciando veri e propri rapporti, che in seguito avrebbe stretto sempre di più, con le bande dei fuorilegge e in particolare con quella di Salvatore Giuliano.
Fu certamente la mafia a proteggere Giuliano nella fuga dopo l'omicidio del carabiniere Mancino e furono ancora i mafiosi a permettere al fuorilegge e ai suoi affiliati di sfuggire alla cattura, quando sul finire del 1943 le forze dell'ordine organizzarono una vasta azione di rastrellamento, nel tentativo di arrestarlo.
Anche in questo periodo inoltre fu tipica connotazione della delinquenza di stampo mafioso l'alta percentuale di delitti che restarono impuniti e di quelli che non furono neppure denunciati. Per la provincia di Palermo, ad esempio, sui 245 omicidi commessi nel 1944, soltanto di 38 furono individuati gli autori, mentre per le 646 rapine avvenute nella stessa zona solo per 90 la Polizia riuscì a denunciarne alla Magistratura i presunti autori.
È d'altra parte significativo, perché dimostra come non sempre i cittadini erano disposti a denunziare i torti subiti, evidentemente per timore di rappresaglie, che sempre nel 1944 i delitti di estorsione accertati in provincia di Palermo furono soltanto 47, quando è invece presumibile che essi siano stati molti di più, essendo il ricatto, come in altra parte si è già avuto modo di dire, una delle «funzioni» più caratteristiche dei mafiosi.
Ma ciò che è ancora più indicativo della potenza della mafia, delle sue ramificazioni e dei rapporti che essa aveva saputo immediatamente ristabilire con l'ambiente, è che quegli anni, come poi avverrà in seguito, la giustizia venne spesso elusa, anche quando le responsabilità erano state accertate fin dal primo momento.
È sufficiente ricordare per tutti l'episodio di Calogero Vizzini, autore con altri del vile attentato commesso a Villalba contro l'onorevole Girolamo Li Causi, che nel corso di un comizio aveva «osato» sfidare apertamente la mafia, invitando i contadini a non prestarsi alle sue lusinghe.
Vizzini fu riconosciuto colpevole del delitto e condannato a cinque anni di reclusione, ma riuscì egualmente a sfuggire alla giustizia e a morire nel suo letto, senza aver fatto nemmeno un giorno di carcere.
Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976
Per approfondimenti:
Prima parte, venerdì 27 marzo 2020: MAFIA, le origini remote
Seconda parte, venerdì 3 aprile 2020: La MAFIA nella storia dell’Unità d’Italia
Terza parte, venerdì 10 aprile 2020: Le attività mafiose
Quarta parte, venerdì 17 aprile 2020: I mafiosi
Quinta parte, venerdì 24 aprile 2020: Lo Stato di fronte alla mafia
Sesta parte, venerdì 8 maggio 2020: La MAFIA degli anni del dopoguerra
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2020-05-08 16:04:05
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