La casa è un autoritratto. Non come arroccamento di “pieni” e di “vuoti” o come alibi per accumuli preziosi ma concitati. Nulla di tutto questo. La casa di Maria Benedetta Cerro, poeta, è un luogo lieve, privo di percorsi aggressivi o di spigoli appuntiti. Le finestre non dominano, offrono. Concedono allo sguardo pianori rincuoranti che digradano per sostentamento di terre millenarie, illuminate senza misura dalla luce del giorno.
Che sa di oro o di brezza, di indaco talvolta, e di verde con scaglie di vermiglio tutto intorno. Poi di notte i bagliori avanzano come truppe al bivacco, per trincee occasionali, per fuochi e filastrocche. Al termine di questa valle che non è valle ma altopiano raggiante le colline si fanno sassi dolenti, sommità brusche o valico inatteso. Nelle gole degli Aurunci- che fanno frontiera – puoi immaginare il Tirreno. O navigarlo nel sogno. O raggiungerlo con il passo del poeta.
Ma la casa è anche un altrove di minuscoli appigli, di respiri e di sguardi più o meno celati. Sono quelli degli “amici” artisti incrociati negli anni nelle scorribande affidate all’affetto e alle parole. E oggi sono tracce indelebili di un cammino nel bosco. Affidarsi ai loro resoconto, ai ritratti giocosi, alla dimensione di una – o più – presenza irrinunciabile. Ecco cosa è, probabilmente, un autoritratto. Che è del luogo e della donna, del poeta, delle parole suggerite, della fragilità e dello stupore ricorrente. Perché Maria Benedetta Cerro ha fatto di questo luogo – minuto e sconfinato al contempo – la sua “città”. Di ombre, di ripetuti ticchettii, di assonanze e bagliori.
Credo che la sua poesia nasca tra i rovi e i granai, tra le briciole centellinate. Di fiori campestri, di parole ventose, di ingannevoli memorie. La nostra storia passa inevitabilmente tra le gole della ricordanza, tra i dolori mai insabbiati e le impercettibili intemperanze del quotidiano. Per lei, per il “poeta”, tutto ciò è indistruttibilmente accresciuto; come un suono persistente, come una immagine che non trova riparo alcuno; al pari di un vivere sul crinale, sulle beffe dell’ordinario e le rovine che sono ai piedi del dirupo. Inestricabile raffronto; contraddittorio ma carnale, vivo, battente. Ha un occhio ciclopico il “poeta” o un’antenna che non ci appartiene.
Che rumina richiami e partorisce essenze. Per chi vuole ascoltare naturalmente, per chi vuole pedinare il richiamo. In fondo è questo il lievito che Maria Benedetta Cerro ripone e riattacca tra le crepe del suo divenire.
Io vivo qui. Tu non cercarmi altrove.
Nel luogo dove i sogni sono arbitrio
di pensiero, nello spazio in attesa
di un tuo gesto, fra molti andirivieni
al banco della gabella. Sappimi
nella scienza esatta dei tributi…..
E’ l’ipotesi di un luogo? Forse. Di un luogo intimo e sconfinato, impercettibile nella sua dolorosa vastità e allo stesso tempo concreto, pratico, fisico. Come lo è il dolore che ne ha innalzato le fondamenta e ornato i versanti. Come lo è il dolore che ne ha tappato gli usci e respirato i detriti.
Non si affida alle traiettorie del dire Maria Benedetto Cerro, non ricuce parabole o intrighi di parole. Non pesa il rischio della confidenza. Legge il fiume, semplicemente. Nel suo disciogliersi, nei gorghi, nelle risacche che fanno pensieri dolenti. Una poesia tersa che ci accoglie e ci fa testimoni. E che ci tiene fermi nelle pause o nella rincorsa. Perché è poesia di aliti, di rammento, di conflitto. Perché è pelle ricucita sulla nostra per gonfiori di strappi; riannodata fino a zuccherare la presa, a farne filamento d’oro.
Il dolore complice di ogni appello. Perché il fato ha deciso un domicilio comune dove convivere, scrutarsi, annusarsi, considerarsi. E intendersi infinitamente bene. Sottolineando ogni giorno, ogni mese, e di questi, ogni anno, la consistenza duratura di un vincolo che dall’origine trae risorsa dolente; che non pacifica e non allontana. Che rimbalza tra le facciate della memoria e si fa tonfo inconfondibile.
Come giorni dentro un calendario
rigorosamente in fila. Numeri uguali
ai disuguali figli della sorte…
Nata nel 1951 scrive poesia da sempre. Presente in diverse antologie è autrice di numerose raccolte e ottenuto significativi riconoscimenti critici. Con l’opera “Ipotesi di vita” (1987) vince il premio “Carducci-Pietrasanta” mentre nel 1992, con la raccolta “Lettera a una pietra” le viene conferito il premio “Libero De Libero”. Della sua opera poetica si sono occupati, tra gli altri, Raffaele Pellecchia, Marcello Carlino, Raffaele manica, Riccardo Scrivano. Del 2018 la sua ultima raccolta, “Lo sguardo inverso”.
uploads/images/image_750x422_5ef37c544589a.jpg
2020-06-25 16:42:31
37