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Valeria Grasso, il grido d’aiuto della testimone di giustizia

by Serena Verrecchia
19 Ottobre 2020
in Mafie
Reading Time: 4 mins read
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A Valeria Grasso hanno fatto trovare un sacchetto con un piccione morto attaccato al ramo di un albero, proprio vicino al tavolino del ristorante dove solitamente cenava con i figli. Per spaventarla, per intimidirla. Una volta le sono entrati in casa e le hanno rubato un quadretto con una foto di famiglia e hanno tranciato i cavi della luce. Le hanno fatto trovare, inoltre, disegnate sul muro, quattro croci nere, una grande per lei e tre più piccole per i suoi figli.

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È questo che succede quando ti metti contro la mafia. È questo che deve sopportare un testimone di giustizia.

Testimone di giustizia, una parola che spalanca le porte su vite spesso vissute al limite del sopportabile. Vite complicate, tormentate, che ti trasformano in un bersaglio, in una persona scomoda, a volte persino in un fantasma.

Valeria Grasso è diventata testimone di giustizia quando ha trovato il coraggio di denunciare i suoi estorsori.

Da piccola imprenditrice palermitana, aveva deciso di aprire una palestra nel quartiere di San Lorenzo, uno dei tanti rioni in cui la presenza mafiosa è massiccia. Aveva preso in affitto un locale di Mariangela Di Trapani, la moglie del boss Salvino Madonia, il pluriergastolano killer di Libero Grassi.

“La padrona”, la chiamavano. Una pedina strategica nei giochi di potere tra le famiglie mafiose palermitane. La boss si era messa alla guida del clan come una vera lady mafia: gestiva affari, garantiva le comunicazioni con il carcere, ordinava omicidi. E, ovviamente, riscuoteva il pizzo.

È proprio lei a mandare i suoi scagnozzi da Valeria Grasso, nella palestra di San Lorenzo, malgrado il locale fosse stato sequestrato.

L'imprenditrice palermitana, non potendo far fronte alle spese, aveva dato in gestione la palestra. Ma le minacce erano arrivate lo stesso, per lei e per i gestori. "Se non paghi, faremo del male a te, alla tua famiglia e alle famiglie di chi gestisce il locale".

“Ero già mamma di tre figli, divorziata, non potevo farcela. E ho dato l'attività in gestione. Quelli si sono presentati chiedendomi come mi ero permessa di fare questo senza il loro consenso. O paghi per sempre, mi dissero, oppure chiedi i soldi agli affittuari e li dai a noi. Da vittima dunque sarei dovuta diventare esattore”.

Con Cosa nostra c'è poco da scherzare.

Ma Valeria Grasso non si è piegata alle minacce: ha ripreso in mano l'attività, mettendo in salvo i gestori, e ha deciso di denunciare, diventando così una testimone di giustizia e con le sue dichiarazioni, ha fatto arrestare venticinque esponenti del clan Madonia. Per questo le hanno assegnato una scorta, garantendole protezione.

“Sono entrata nel programma di protezione ed è cominciata la vita blindata. Le conseguenze della mia scelta le pagherò tutta la vita. Come fosse una condanna. Ma lo rifarei.”

Le minacce non sono sparite. Al contrario, la vita della testimone si è fatta sempre più difficile e rischiosa. Negli anni infatti, la scorta le è stata assegnata e revocata più volte. Il pericolo sussiste solo a Palermo, non su tutto il territorio nazionale. Come se la vendetta della mafia potesse arenarsi difronte a confini geografici.

Oggi a proteggerla ci sono solo due carabinieri. Niente auto blindata, nonostante dal Viminale avessero assicurato tutte le misure necessarie. Sospeso il servizio di vigilanza dinamica, causa emergenza Covid-19, quell'emergenza che consente ai boss in carcere di trovare degli escamotage, ma che costringe i testimoni di giustizia a vivere nella paura.

Il mese scorso Valeria Grasso ha trovato altre quattro croci sul muro della sua abitazione: stessa tipologia, stesse croci, stesso ordine di quelle trovate cinque anni fa. Come hanno fatto ad arrivare indisturbati al terzo piano di un palazzo, in fondo al corridoio? “Il mio appartamento è proprio l'ultimo di un corridoio per cui non puoi arrivare lì se non sai che esiste”.

A Valeria Grasso non basta dunque la protezione dei carabinieri, serve la scorta. È questo il suo appello da madre di famiglia che ha paura per l'incolumità sua e dei suoi figli.

Quest'ultimo episodio ci fa comprendere come il nostro sia un Paese che sembra essere a disagio coi testimoni di giustizia, che sembra non saper garantire loro una protezione vera e continuativa, malgrado gli sforzi degli agenti preposti al servizio di protezione. Secondo il racconto di Valeria, il Prefetto Frattasi sarebbe stato avvisato della situazione, garantendo l'immediata attivazione di tutte le misure di sicurezza. “Otto giorni dopo, senza aver ricevuto alcuna risposta, sono andata al Viminale per incontrare il Prefetto, il quale mi ha ricevuta, e gli ho detto: 'Buongiorno, io sono Valeria Grasso, mi conosce?' No, io non la conosco”.

Un altro mortificante schiaffo alla dignità di chi decide di ribellarsi alla mafia, rinunciando a una vita tranquilla per abbracciare solo incertezze, paure, smarrimento e rischi per sé e per i propri cari.

I testimoni di giustizia sono persone normalissime che hanno deciso di non piegarsi al ricatto dei criminali. “Non sono pazzo”, diceva Libero Grassi, l'imprenditore palermitano ucciso da Cosa nostra il 29 agosto 1991, da quella stessa famiglia mafiosa che oggi continua a minacciare Valeria. “Non mi piace pagare. Io non divido le mie scelte con i mafiosi”. Perché, dopo tanti anni, l'imprenditrice palermitana continua ad essere nel mirino degli estorsori? “Perché incito gli altri ad essere liberi e a non essere schiavi della mafia”.

Ci uniamo all'appello di questa donna, sperando che non rimanga inascoltato.

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2020-10-19 19:28:08

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