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Pippo Fava e il coraggio allegro degli uomini dritti

by Serena Verrecchia
4 Gennaio 2021
in Il "santo Laico"
Reading Time: 7 mins read
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I “cavalieri dell'Apocalisse” di Catania, a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, avevano un nome e un cognome: Mario Rendo, Gaetano Graci, Francesco Finocchiaro, Carmelo Costanzo. Quattro imprenditori che avevano il controllo economico della città e che riuscivano a mettere le mani sugli appalti più succulenti grazie al doppio filo che li legava anima e corpo al potere mafioso.

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Professionisti con la faccia pulita e la fedina penale immacolata, non macellai col kalashnikov in spalla. La mafia sa camuffarsi, sa cancellare la puzza, sa detergersi nelle acque incontaminate della mondanità, così eleganti e produttive da non destare malessere e antipatia.

A Catania tutti sapevano, ma nessuno aveva il coraggio di parlare.
Tutti, tranne Pippo Fava.

Con un editoriale sui “Quattro cavalieri dell'Apocalisse mafiosa”, il giornalista catanese aprì il primo numero de I Siciliani, nel dicembre del 1982, creando sconcerto nell'alta società cittadina, assuefatta al dilagare di quella mafia che “da Catania viene alla conquista di Palermo”, come ebbe a constatare il generale Dalla Chiesa.

Pippo Fava faceva questo: scompaginava il potere, guastava gli affari, disturbava. 

Perché per lui il giornalismo era pulizia e verità. Un mastino alle calcagna del potere. Una parola bella, viva, nuova, rivoluzionaria gettata alla rinfusa in un mondo chiuso, impenetrabile, vigliacco. Un grimaldello per scardinare pregiudizi, luoghi comuni, omertà, paure.
Pippo Fava, siciliano nato sui monti Iblei, aveva del giornalismo un “
concetto etico”: “ritengo che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. Pretende il funzionamento dei servizi sociali. Tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”.

Lo scriveva sul Giornale del Mezzogiorno, per chiarire senza equivoci quale fosse lo spirito del suo lavoro. “Se un giornale non è capace di questo – concludeva – si fa carico anche di vite umane”.

Pippo Fava aveva messo su una redazione di giovani cronisti, animati solo dal desiderio di verità, in una Catania che censurava le sue voci più belle e libere. Volevano zittirle. Coprendole di fango, di soldi sporchi. Il giorno dopo la pubblicazione del suo editoriale, venne licenziato.
A Palermo corleonesi e palermitani si scannavano, ma a Catania la mafia non esisteva. La Sicilia orientale era miracolosamente immune dal morbo di Cosa nostra e così doveva essere.

E invece Pippo Fava rompeva gli equilibri, squarciava la melodia ipocrita degli impostori con la sua voce un po' rauca ma sempre viva. Libera, coraggiosa. Si ostinava a parlare di mafia disturbando i piani alti. Gettava luce sui legami tra l'imprenditoria catanese e il boss Nitto Santapaola, parlava della città come uno dei punti nevralgici nel traffico internazionale di droga, si occupava dei missili nucleari nelle basi Nato in Sicilia.

Pippo Fava amava la vita e la bellezza. Ha lavorato per il teatro, per la televisione, per la radio. Ha scritto saggi, spettacoli, romanzi. La sua era un'intelligenza inquieta e viva, ironica e allegra. Di quell'allegria spericolata che prende a testate reticenze e omertà.
La stessa che gli si lesse in faccia durante il suo
ultimo intervento pubblico, in un'intervista a Enzo Biagi, quando con straordinaria lucidità disse che “i mafiosi stanno in Parlamento. A volte sono ministri, banchieri, i vertici della nazione; c’è un equivoco di fondo, non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone una tangente sulla tua piccola attività commerciale. Il problema della mafia è molto più tragico, riguarda i vertici della Nazione, la sua gestione, e rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale e definitivo l’Italia”.

Pippo Fava si portava dentro la bellezza dei siciliani coraggiosi, un misto di estrosità barocca e fierezza ellenica. Audace, carismatico, fermo, risoluto. Un uomo che nel taschino portava con sé solo parole e libertà.

Per questo lo hanno ammazzato. Era il 5 gennaio del 1984, trentasette anni fa.
Cinque colpi alla nuca. Ammazzato di spalle, prima ancora che il sorriso di nonno potesse afflosciarsi davanti ai suoi killer.

Il giorno dopo non si parlò del collega coraggioso ucciso dalla mafia. Non si poteva, perché ufficialmente a Catania la mafia non esisteva. E allora il delitto Fava era stato un semplice “delitto passionale”, un crimine con “moventi economici”. Non un barbaro assassinio mafioso, non sia mai.

Per l'omicidio sono stati condannati all'ergastolo il boss Nitto Santapaola come mandante e Maurizio Avola e Aldo Ercolano come esecutori materiali.

Aldo Ercolano, nipote di Santapaola ed esponente apicale della mafia catanese, nel dicembre del 2019 si è visto revocare il regime carcerario del 41bis. Claudio Fava, il figlio del giornalista ucciso e presidente della Commissione regionale antimafia siciliana, ha definito questa scelta un “fatto incongruo, preoccupante, non comprensibile”. Era già successo nel 2015, quando c'era Orlando al Ministero della Giustizia. Poi ci si mise una toppa su e non se ne parlò più.
Ora a distanza di cinque anni – e ben prima dell'ondata di scarcerazioni dello scorso aprile – torna a porsi lo stesso problema.

Ma perché si vuole revocare il carcere duro al boss Ercolano?

Secondo Mario Ravidà, ufficiale della DIA di Catania negli anni Novanta, Ercolano sarebbe un “personaggio di alto livello politico”, uno in grado di interloquire con il potere che conta. Che sia stato “protetto e favorito dalle istituzioni lo dimostra il fatto che l'impresa di famiglia non è mai stata toccata, anzi è stata autorizzata a lavorare”, nonostante fosse “impresa mafiosa”.

Ercolano è il mafioso che trattò con Dell'Utri la fine degli attentati alla Standa di Berlusconi in Sicilia. Ed è il boss che secondo alcuni collaboratori di giustizia avrebbe “venduto” Santapaola allo Stato. In cambio di cosa?

Ecco, se ci sta a cuore la lezione di Pippo Fava, dovremmo continuare a porci le giuste domande.
E a portarcelo dietro quel coraggio allegro degli uomini dritti, come unico vestito da indossare, ogni mattina.

 

WORDNEWS.IT © Riproduzione vietata

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