Non c’è un terremoto ogni giorno, questa notte ho riso (con risposta anch’io), facciamo un incontro per rassicurare la popolazione contro le cazzate di chi fa allarmismo. Sono alcune delle frasi risuonate sabato mattina nel Teatro Rossetti di Vasto durante l’incontro «Le voci della memoria, un racconto disincantato del terremoto del 6 aprile 2009».
Sono passati quindici anni da quella maledetta notte, da quelle settimane in cui lo Stato (lo stesso che “condannò” un anno e mezzo fa alcuni cittadini morti per aver creduto nello Stato e nelle sue rassicurazioni) e (im)prenditori prima e dopo piombarono sulla città distrutta e realizzarono quel che inchieste hanno, poi, documentato e denunciato. Risentirle, anche per chi le conosce a memoria e la ha indelebilmente marchiate nella memoria e nella coscienza indignata, fa male, fa sempre terribilmente male. Fa piangere lacrime, di commozione e di rabbia.
Le immagini e le voci di quella notte, dei giorni di “rassicurazioni” della “Commissione Grandi Rischi” e di chi rideva quella notte, del dolore e della rabbia degli aquilani nelle tendopoli, della forza dirompente – ammirevole e carica di amore per la comunità e la sua terra – dell’indimenticabile Antonietta Centofanti (il cui cammino terreno si è fermato in un’altra notte d’aprile tanti anni dopo), del coraggioso giornalismo d’inchiesta di Angelo Venti (primo ad attivarsi e autore del dossier di denuncia e documentazione di quel che accadde “I soldi nel cesso”) hanno commosso, sono giunte al cuore come lame, ferite che tornano a sanguinare. Di ricordi indelebili.
Meno di un mese prima dell’anniversario del sisma si sono tenute le elezioni regionali. Abbiamo già raccontato show e tarantelle di una politica politicante che ha toccato i punti più bassi che chi scrive ricordi. Hanno (s)parlato di tutto e di più, abbiamo visto all’opera tatticismi e giochetti, chiacchiere vuote e copioni inqualificabili. Fa riflettere un dato, tra i tanti: da nessuna parte nessuna parola sul 6 aprile ormai alle porte, sulla memoria di quindici anni fa e di tutto quello che accadde.
È una ferita che non smette di sanguinare, è una memoria che non si cancella, è stato lo spartiacque tra un prima e un dopo, sono accaduti fatti e misfatti che gridano e grideranno per sempre. Eppure chi dovrebbe occuparsi del “bene comune” quelle pagine le ignora, come fossero state strappate dal libro della Storia di questa regione, fa finta non esistano. Per tutti loro è una pagina forse troppo scomoda, che non possono piegare a ben altri interessi che il “bene comune”.
«Questa maledetta notte dovrà pur finire» canta in una delle sue più recenti canzoni famose Roberto Vecchioni. 6 aprile 2009, una maledetta notte è poi finita, le luci dell’alba hanno scacciato le tenebre ed un nuovo giorno è sorto.
Ovunque ci sono milioni di persone che si sono recate al lavoro, hanno alzato saracinesche, bambini e ragazzi sono andati a scuola, piazze e bar si sono riempite nella quotidianità. E la polvere si è posata, grida disperate si sono fermate, lacrime si sono asciugate, soccorsi sono partiti e da vite spezzate ci si è congedati. Una notte è finita ed un nuovo giorno è arrivato, il sole è scivolato a violentare altre notti riprendendo il verso di Faber. E c’è una notte che non è mai finita, una notte infinita, esistenze segnate per sempre da un appuntamento della vita che non sapevamo stava arrivando un “terremoto delle anime” (come lo definì lo storico Raffaele Colapietra) che muta e prosegue, attraversando le vite e il tempo.
Liliana Centofanti all’inizio dell’incontro è salita sul palco in pigiama, come tutti eravamo quella notte. A ricordarci quell’appuntamento che non conoscevamo, che non sapevamo stava arrivando, simbolo di quella quotidianità e normalità ferita per sempre da quei secondi di quella maledetta notte. Una notte non è mai finita e accompagna da quindici anni fa. Una notte in cui i raggi della luna e le stelle che la illuminano in questi tre lustri sono cambiate, mutate, cresciute (o spente) e accompagnano. Una notte che, riprendendo i versi di Vecchioni, siamo noi a dover riempire, a conoscerla e riconoscerla per conoscerci e riconoscerci, che muta con il ricordo e la memoria così come siamo mutati.
Liliana Centofanti è salita sul palco del Teatro Rossetti insieme a Federico Vittorini e Renato Di Nicola, in collegamento è intervenuta Ilaria Carosi. Davanti a loro una platea di ragazze e ragazzi delle scuole superiori, ragazzi che quella notte non erano ancora nati o erano troppo piccoli per ricordare. Come i loro coetani aquilani, bambini nati e cresciuti in questi quindici anni in un luogo segnato da quella notte e che si sono ritrovati a vivere la primavera della vita come mai prima.
Il ricordo ci accompagna ma ci può anche bloccare, fermare, mantenere lo sguardo su quel che non è più, su quella maledetta notte. Ed esiste la memoria, che vive nel presente, che ci può permettere di vivere e agire nella notte infinita, leggendo quel che è stato mutato, adattato, riflettuto, in quel che siamo. Renato Di Nicola ha ricordato la lotta in Argentina delle Madri di Plaza de Mayo, il dolore per i figli desaparecidos diventata lotta, lotta che è diventata vita e gioia. Dalle crepe del dolore, parafrasando Leonard Coen, è entrata la luce. La memoria, affermano da decenni le Madri, può e deve diventare fertile.
Ilaria Carosi in collegamento e Federico Vittorini dal palco hanno portato le loro testimonianze di questi anni, del post terremoto e di quanto accaduto dopo, della vita nel territorio aquilano e nel cratere, di ragazzi che si affacciavano alla vita nel 2009 e quindici anni dopo sono adulti. Vittorini sta portando avanti un documentario, un video testimonianza. L’incontro è iniziato con la visione di un video su quei giorni, con immagini tratte dal film denuncia di Sabina Guzzanti Draquila, e si è concluso con la visione del trailer del documentario di Vittorini “Memoro Ergo Sum”, dedicato al ricordo di quindici anni fa e agli iter processuali.
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Le voci della memoria, un racconto disincantato del terremoto del 6 aprile 2009
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