“Ci hanno chiesto di tracciare tutto il materiale video, anche i colloqui con fonti anonime”. Le parole di Sigfrido Ranucci sono una bomba. Una denuncia che scuote nel profondo le fondamenta di ogni democrazia sana. Non si tratta più di una singola puntata bloccata, di un’inchiesta censurata o di un editoriale rifiutato. Si tratta, ora, di un attacco sistemico al giornalismo d’inchiesta, un tentativo istituzionalizzato di tracciare, monitorare, schedare ogni passo di chi cerca la verità.
Secondo quanto denunciato dal conduttore di Report, la Rai avrebbe diffuso una circolare interna che impone ai giornalisti di segnalare tutto il materiale video raccolto, inclusi i colloqui con fonti anonime. Un atto che viola non solo l’etica professionale ma anche ogni principio costituzionale sul diritto alla segretezza delle fonti, pilastro fondante del mestiere giornalistico.
È lecito chiedersi: chi ha voluto tutto questo? Chi ha scritto – o ispirato – quella circolare? È solo un eccesso di zelo da parte della dirigenza RAI o è l’espressione concreta di una volontà politica che parte da molto più in alto?
In un contesto in cui la governance della RAI è ormai apertamente nelle mani del Governo, parlare di “scelte autonome” è ipocrisia. Non è un mistero che la politica stia provando da tempo a normalizzare il racconto televisivo, riducendo al minimo il dissenso, ammorbidendo la critica ed ora persino controllando le fonti. Una televisione pubblica così diventa tutt’altro che libera: diventa un braccio armato della comunicazione istituzionale, un filtro che separa la realtà da ciò che il potere vuole che si sappia.
Tracciare i colloqui con fonti anonime non è solo un abuso. È un precedente pericolosissimo. Significa scoraggiare le denunce, intimidire chi parla, mettere in pericolo chi – spesso a rischio della propria sicurezza – si fida di un giornalista per far emergere ingiustizie, corruzione, illegalità.
Significa, in altre parole, uccidere il giornalismo alla radice. Perché un giornalista senza fonti libere è solo un cronista di comunicati stampa.
E un Paese senza giornalismo libero è un Paese malato.
Sigfrido Ranucci è uno dei pochi volti rimasti in Rai a fare davvero giornalismo d’inchiesta. È scomodo, indipendente, non allineato. Il suo lavoro mette in luce ombre che molti vorrebbero restassero nascoste. Ecco perché Report è sempre sotto attacco: perché non si limita a raccontare ciò che accade, ma osa fare domande. E oggi, fare domande in Italia è diventato pericoloso.
Rappresenta uno degli ultimi baluardi del giornalismo d’inchiesta in Italia. Uno dei pochissimi che ancora ci mette la faccia, che si espone, che si assume la responsabilità – anche personale – di dire quello che gli altri tacciono. Non fa gossip, non fa cronaca addomesticata, non fa infotainment. Fa inchieste. Quelle vere. Quelle che disturbano, che scavano, che fanno tremare i palazzi.
E non è un caso che proprio lui sia il diretto erede di Milena Gabanelli, una delle più grandi giornaliste italiane, che ha fatto di Report un simbolo di libertà, rigore, e coraggio civile. Anche lei ha subito pressioni, tentativi di censura, attacchi politici. Ma ha resistito, con integrità assoluta. Oggi, il testimone è passato a Ranucci, e la storia sembra ripetersi – ma in un clima molto più tossico, molto più aggressivo, molto più pericoloso.
Il numero dei giornalisti che fanno vera inchiesta è drammaticamente basso. Troppi colleghi, anche per sopravvivere, si piegano a logiche di conformismo o cercano rifugio nella cronaca neutra. E chi non lo fa, chi osa, si ritrova isolato, delegittimato, minacciato. È un meccanismo perverso che ha un solo scopo: normalizzare il silenzio.
Il punto è questo: se oggi passano la censura, il controllo delle fonti e la tracciabilità del materiale sensibile, domani cosa succederà? Verrà chiesto di consegnare i nomi delle fonti? Di evitare certe inchieste per “non turbare l’opinione pubblica”? Verranno imposte linee editoriali dall’alto, mascherate da esigenze di “trasparenza”?
O peggio: i giornalisti stessi cominceranno ad auto-censurarsi, temendo ripercussioni. E quando un giornalista ha paura, il potere ha già vinto.
È tempo di svegliarsi. Di scegliere da che parte stare. Questo non è un caso isolato. È il segnale di una deriva più ampia, di una cultura politica che vuole normalizzare il controllo dell’informazione.
Non possiamo permettercelo.
Difendere Sigfrido Ranucci, difendere Report, oggi significa difendere il diritto di ogni cittadino a sapere.
Significa dire NO a una Rai asservita al potere.
Significa dire NO a un Paese in cui il giornalismo è tracciato come un sospetto.
Significa dire NO alla paura.
E, soprattutto, significa ricordare che un’informazione libera non è un lusso: è l’unico antidoto al potere incontrollato.
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