Questa non è solo una targa sbiadita. È un’aggressione. È una nuova violenza.
Da giorni, a Petilia Policastro, l’insegna che celebra Lea Garofalo – la donna che ha avuto il coraggio di denunciare la ‘ndrangheta, massacrata a Milano nel novembre del 2009 – è ridotta in un modo vergognoso: scolorita, consumata, illeggibile. Il suo volto è scomparso. Il messaggio “Città del Coraggio Femminile” è ormai quasi invisibile.
Questo è un atto violento. Una devastazione simbolica.
Una mutilazione pubblica della memoria. Una provocazione oscena. Quando lo Stato e le istituzioni lasciano che il nome di Lea venga cancellato, senza un gesto, una parola, una riparazione, stanno esercitando la (il)logica del silenzio: “non parlare, non disturbare, non ricordare”.
Chi cancella i segni del coraggio, non è innocente. Chi lascia marcire una targa dedicata a chi ha dato la vita per un mondo migliore, non è neutrale. Chi non si indigna, oggi, è complice di chi ha assassinato brutalmente Lea nel 2009.
Il nostro direttore Paolo De Chiara, autore di libri e inchieste sui testimoni di giustizia (tra cui quello sulla storia vera di Lea Garofalo), ha denunciato tutto questo. Ed è stato anche minacciato da un famigliare dell’ergastolano “suicida” Rosario Curcio, condannato nel processo milanese per la morte violenta di Lea Garofalo. Ma la sua voce, per ora, è rimasta isolata, affidata alle colonne di WordNews.it, che continua a documentare le contraddizioni di uno Stato che commemora a parole e cancella nei fatti.
Per la verità tutti gli articoli, quasi sessanta, sono contenuti anche in una cartellina presso la Procura della Repubblica di Isernia. In attesa di giudizio.
Dimenticare Lea, glorificare Curcio: la vergogna è servita
Mentre a Petilia si lascia morire la memoria di una testimone di giustizia (anche se oggi Lea è ancora presente nella lista dei collaboratori di giustizia), qualcuno ha dimenticato i funerali celebrati per un assassino.
Un evento raccontato con lucidità e indignazione nei nostri articoli (copiazzati da parte di una stampa che è capace solo di fare il “copia e incolla”, senza scavare):
Da oltre due anni, il Governo non ha ancora risposto all’interrogazione presentata dalla parlamentare Ascari, che chiedeva conto – dopo le nostre denunce – del “patrocinio” e della legittimità di quei manifesti funebri pro-Curcio. Il silenzio è tombale. Politico. Vergognoso.
Per il collega calabrese, Francesco Rizza: «Mentre siamo in attesa che il Governo Meloni, dopo due anni, risponde alla interrogazione della parlamentare Stefania Ascari sulla necessità di inviare una commissione di accesso al Municipio per la storia dei manifesti, le condizioni in cui si trova la tabella del “Coraggio femminile in onore di Lea” è qualcosa che indigna, nonostante il degrado delle mille sterpaglie in cui è abbandonato il centro abitato cittadino. A prescindere dalla tabella, l’esempio di Lea resterà sempre nel cuore di noi che abbiamo fatto del rispetto delle regole e della lotta alla ‘ndrangheta i nostri imperativi categorici».
Quello che succede oggi a Petilia non è un fatto isolato. È l’ennesimo segnale che la memoria delle vittime delle mafie è selettiva, sacrificabile. L’insegna in onore di Lea non è solo un pezzo di metallo. È una dichiarazione di identità, un gesto di giustizia, un patto collettivo. O almeno lo era. Ora è un monumento al tradimento.
Perché se non proteggi la memoria dei giusti, proteggi l’omertà. Se non racconti la verità, alimenti la menzogna.
Questa azione violenta – che sia frutto di degrado materiale, vandalismo, o deliberata rimozione simbolica – è una seconda condanna a morte. Lea Garofalo è stata bruciata in un bidone. Oggi la sua memoria viene bruciata nell’indifferenza. E chi tace, chi non interviene, è complice.
Perché anche l’omissione è una scelta politica.
Lea non è sola finché c’è chi la ricorda. Ma oggi Petilia la sta dimenticando. E con lei, tutta l’Italia. E mentre l’insegna cade a pezzi, lo Stato continua a premiare i silenzi e a ignorare le voci coraggiose.
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