Un messaggio privato su Facebook. Poche righe intrise di odio, violenza verbale e minaccia. Parole scritte dalla sorella di un mafioso morto suicida in carcere, condannato per l’omicidio di Lea Garofalo, rivolte a chi ha avuto il coraggio di raccontare quello che molti hanno ignorato o taciuto (e copiato).
Parole che pesano come pietre.
«Se ti venissi in sogno saprei io cosa fare… meglio di no perché talmente che sei malvagio che nemmeno la morte ti vorrebbe… brucia all’inferno fetusu».
Questa è solo una parte del messaggio ricevuto da Paolo De Chiara, direttore di WordNews.it e presidente dell’Associazione Antimafie Dioghenes APS, che da anni organizza il Premio Nazionale Lea Garofalo. Un messaggio firmato dalla sorella di Rosario Curcio, il mafioso condannato in via definitiva per aver contribuito a distruggere il corpo di Lea Garofalo, testimone di giustizia, rapita, torturata e uccisa dalla ‘ndrangheta il 24 novembre 2009.

Un funerale tra celebrazioni e omertà
Tutto nasce dalla copertura giornalistica pubblicata su WordNews.it in merito al “funerale festoso” celebrato nel paesino d’origine di Curcio. Una cerimonia pubblica, tra manifesti affissi in strada, presenze istituzionali, omaggi social e assenza di prese di distanza chiare da parte delle autorità locali e religiose.
Una vicenda che ha suscitato sconcerto e indignazione tra familiari delle vittime di mafia, esponenti istituzionali e associazioni antimafia.
La testata WordNews.it ha dedicato all’episodio un dossier giornalistico dettagliato, composto da oltre 30 articoli con testimonianze, ricostruzioni, denunce e reazioni, tra cui quelle di Salvatore Borsellino, Angela Napoli, Luana Ilardo, Piera Aiello, di Gennaro Ciliberto e dell’Ordine dei Giornalisti del Molise.
Senza dimenticare le mancate risposte del sindaco, le offese del vice-sindaco e le posizioni vergognose di alcuni esponenti delle istituzioni locali. Per non parlare delle presenze istituzionali al funerale e l’omaggio presso l’abitazione del condannato-suicida.
Altro aspetto fondamentale: nemmeno la politica nazionale ha mosso un dito.
Nessuno ha mai risposto ad una interrogazione parlamentare. La lotta alle mafie continua ad essere solo una passerella politica e mera propaganda (becera) da parte di coloro che, probabilmente, prendono pure i voti da questa gentaglia.
Il dossier completo è disponibile qui:
https://www.wordnews.it/linutile-scomunica-lanciata-contro-i-mafiosi
Le minacce ricevute dal direttore De Chiara non sono rimaste senza conseguenze. Il giornalista ha sporto denuncia, allegando le prove del messaggio, e la Procura della Repubblica di Isernia ha emesso un decreto di citazione a giudizio.
Il procedimento è in corso, e il direttore di WordNews.it sta valutando la possibilità di costituirsi come parte civile.
«Non è un fatto personale, ma una questione pubblica – dichiara De Chiara –. Se si colpisce un giornalista che fa il proprio lavoro, si colpisce il diritto di tutti ad essere informati. Non sono io a dover tacere, ma chi glorifica mafiosi e offende la memoria di chi ha avuto il coraggio di ribellarsi».
Il silenzio delle istituzioni e il ruolo dell’informazione
Il caso Curcio è emblematico. Da una parte, un condannato all’ergastolo, suicidatosi in carcere, celebrato con manifesti e applausi. Dall’altra, un giornalista minacciato per aver denunciato l’oscenità di un tributo pubblico a un condannato.
E in mezzo, le istituzioni che tardano a rispondere, o peggio, partecipano o tacciono.
«Un funerale mafioso non è mai solo un evento privato», scriveva WordNews.it. «È un messaggio. È simbolico. È potere che si manifesta e si riafferma».
In una società in cui la libertà di stampa è sotto attacco (l’Italia è scesa al 49° posto secondo Reporters Sans Frontières), casi come questo sono il termometro di un clima pericoloso: la normalizzazione del linguaggio mafioso, il revisionismo sulla figura delle vittime, l’isolamento di chi denuncia.
Paolo De Chiara non è nuovo alle minacce. Ma non ha mai smesso di raccontare storie scomode, verità ignorate, volti dimenticati. Il caso Curcio, come molti altri seguiti da WordNews.it, dimostra che il giornalismo d’inchiesta è ancora vivo, anche se poco tutelato.
Ed è per questo che la solidarietà non basta.
Serve una risposta giuridica, politica e civile. Serve, soprattutto, una comunità che protegga chi protegge la verità.
Mettetevelo in testa: non ci fate paura.
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