Come recitava il Sommo Poeta nel Paradiso, Canto IV: “Se violenza è quando quel che pate niente conferisce a quel che sforza, non fuor quest’alme per essa scusate”.
Cos’è allora la violenza, come si esercita, come si patisce, come ci si salva da essa e da chi la esercita? Interrogativi che assillano l’umanità fin dai suoi albori e che non trovano risposte perché la violenza è una componente insita nell’indole umana. In misure differenziate, essa rimane in latitanza, pronta a scattare quando l’occasione diventa tentazione.
Nel corso dei secoli poi alla violenza sono state lasciate aperte porte che man mano sono andate restringendosi. E oggi possiamo affermare che in generale vi è una universale condanna dei comportamenti violenti, diretti a provocare sofferenza se non addirittura morte ad altri esseri umani. Pensiamo per esempio alla grande conquista rappresentata dalla difesa dei diritti umani e alla conseguente condanna di tutte quelle azioni volte a violare tali diritti.
Eppure anche nel mondo contemporaneo vi sono ancora enormi sacche in cui la violenza viene esercitata a danno dei più deboli, di soggetti fragili e indifesi. L’elenco sarebbe inevitabilmente lungo e drammatico, ma in questa sede mi voglio soffermare su un aspetto particolare dell’esercizio della violenza: quella di cui sono vittime le donne migranti.
Il fenomeno migratorio, sappiamo bene, nel nostro Paese ha suscitato un dibattito che spesso non poggia su basi empiriche, non attinge ai dati reali, ma si sviluppa prevalentemente sulla percezione di una realtà che non ha riscontro nei dati. Le norme emanate dal precedente governo, e tuttora in vigore, non aiutano di certo a stemperare il dibattito nell’opinione pubblica, a liberarlo da una serie di false rappresentazioni. Di fatto l’effetto che tali misure ha prodotto è quello di rendere ancora più vulnerabile la condizione di molti migranti, precedentemente avviati ad un percorso di integrazione e inclusione sociale e oggi di nuovo buttati in strada.
Nell’ambito di questo fenomeno, i soggetti maggiormente vulnerabili sono le donne e i bambini, soprattutto quelli non accompagnati. Ma le donne, in particolare, sono quelle che soffrono le situazioni di maggiore discriminazione, che molto spesso sfocia in violenze, psicologiche e fisiche.
Queste donne, queste nostre sorelle, soffrono fin dal loro paese di origine in quanto spesso sono costrette a lasciare la loro casa, la loro famiglia, il loro paese, anche contro la propria volontà, per aiutare la famiglia. È il caso delle ragazze nigeriane che nel 2016 sono sbarcate in massa sulle nostre coste (11mila contro le 5mila del 2015). Di queste ragazze secondo l’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni circa l’80% è potenziale vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Un interessante studio condotto da Action Aid rivela che, stando a quanto le ragazze dichiarano in sede di colloquio con le Commissioni territoriali (quelle dove si decide il riconoscimento dello status di rifugiato) nel 61% dei casi le ragazze sono costrette a partire a causa delle violenze di genere che subiscono nel loro paese, oltre ovviamente a povertà e mancanza di rete familiare.
Queste donne, come tutte quelle che intraprendono il viaggio verso l’Europa, sono nella quasi totalità dei casi vittime di violenze lungo il percorso che dal paese di origine le porta sulle nostre coste, transitando per quell’inferno che è oggi la Libia. Il CIR (Centro Italiano per i Rifugiati) ha dato vita ad un progetto, inserito in un più ampio progetto europeo, che ha lo scopo di informare e incoraggiare le vittime di violenza a denunciare, indipendentemente che la violenza sia stata consumata nel paese di origine, di transito o anche in quello di accoglienza.
È stato effettuato un lavoro di conoscenza su un gruppo di donne rifugiate e richiedenti asilo, molte delle quali non avevano nemmeno idea di cosa volesse dire “violenza di genere” e molte sono state le difficoltà nel farle aprire, nel confidare la propria esperienza. Dall’indagine è emerso che la principale forma di violenza cui queste donne sono state sottoposte è la violenza domestica (fisica e psicologica), seguita dal traffico di esseri umani e dalla violenza sessuale. Forme di violenza sono ovviamente anche le mutilazioni genitali femminili che ancora vengono praticate in numerosi paesi africani, così come i matrimoni forzati precoci e la violenza basata sull’onore.
Quello della violenza di genere praticata sulle donne migranti è un fenomeno che aggrava il già pesante quadro della violenza nei confronti delle donne, genericamente intese. Il contesto sociale e familiare di provenienza è impregnato di violenza nei loro confronti: nascere donna significa nascere già con un pesante fardello, fatto di sopportazione, di dolore, di diritti negati. Si deve sottostare ai maschi, padri, fratelli, mariti o capi villaggio. Si devono accettare le mutilazioni genitali perché imprescindibile fatto di tradizione, così come il matrimonio imposto dalla famiglia, spesso in età precocissima, con drammatiche conseguenze fisiche che spesso portano alla morte della sposa bambina.
Il calvario di violenze prosegue anche se si cerca di arrivare ad avere una vita migliore: durante i viaggi, e soprattutto nei lager libici, la violenza sulle donne è pane quotidiano e spesso merce di scambio per un tozzo di pane. Ma anche all’arrivo nel paese di destinazione spesso ciò che queste povere donne trovano altro non è se non altra violenza, per esempio quella dello sfruttamento sessuale.
C’è una via d’uscita a tutto questo? Oppure è pura utopia sperare che un giorno l’uomo comprenda quanto inutile e disumano sia esercitare violenza sui propri simili? Sono interrogativi ai quali non si riesce a dare risposta, perché la soluzione va giocoforza ricondotta sui sentieri del potere, sia esso economico, politico, in quei giochi nei quali la vita umana, soprattutto quella dei più fragili e dei più deboli, non ha nessun valore e diventa merce di scambio, moneta per esercizio del potere a svariati livelli.
Ma non possiamo arrenderci a tutto questo come fosse inevitabile. Ogni giorno ognuno di noi, con il proprio comportamento e nelle proprie possibilità, può contribuire a deviare questo sentiero perverso. L’umanità, se lo vuole, può ritrovare sé stessa.
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2020-04-04 12:22:06
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