Era il 18 maggio del 2016 quando, sulla strada verso Cesarò, un piccolo borgo sui monti Nebrodi, in provincia di Messina, l'auto blindata di Giuseppe Antoci veniva raggiunta da più colpi di fucile sulla fiancata, nel momento in cui l'auto era costretta a fermarsi per la presenza di pietre sulla carreggiata.
Illesi fortunatamente Antoci e gli uomini della scorta. Dopo 4 anni ancora senza nome gli attentatori.
Antoci, già Presidente del Parco dei Nebrodi, ha dato il suo nome ad un protocollo di legalità, da lui fortemente voluto per fermare il business delle cosche mafiose legato ai finanziamenti europei (soldi pubblici), destinati all'agricoltura: la mafia dei pascoli. Il protocollo prevede l'obbligo di presentazione del certificato antimafia per ottenere l'assegnazione degli affitti dei terreni agricoli.
Un protocollo che nel 2016 è stato poi esteso a tutta la Sicilia, sottoscritto dai prefetti dell'isola, per poi essere recepito nel nuovo codice antimafia del 2017 e quindi applicato a tutto il territorio nazionale.
Sono passati 4 anni dall'attentato ma ancora non si è fatta chiarezza né sui nomi degli esecutori, né su quello dei mandanti: c'è stata al contrario una archiviazione da parte della procura di Messina, non essendoci gli estremi per procedere nei confronti degli indagati.
A seguito della archiviazione, la commissione Antimafia siciliana, presieduta dall'On. Claudio Fava, inizia una indagine per fare chiarezza sull'accaduto. Pur essendo uno dei fatti più gravi avvenuti in Sicilia negli ultimi anni, l'attentato ad Antoci è tornato alla ribalta per il grande pubblico, dopo la trasmissione "Le Iene", a seguito della intervista fatta proprio al presidente Fava. Il lavoro della commissione sull'attentato è racchiuso in un documento di 100 pagine che tuttavia, come dice lo stesso Antoci, non arriva ad una conclusione certa.
Tre sono le ipotesi: un attentato mafioso fallito, un atto puramente dimostrativo destinato ad "avvertire", una simulazione. Ne abbiamo parlato con Claudio Fava, politico e giornalista italiano. Attuale presidente della commissione Antimafia Siciliana.
Presidente, perché tante polemiche dopo l'intervista del giornalista Gaetano Pecoraro, mandata in onda da "Le Iene", ripresa anche sulle pagine di Repubblica, riguardo al lavoro svolto dalla Commissione sul caso Antoci?
«Non parlerei di polemiche con il giornalista de "Le Iene": non conosco il programma, non lo seguo, ma so che il giornalismo ha delle regole che in quella intervista non sono state rispettate. Io ho parlato un'ora e venti minuti in quell'incontro, ma non c'è stata la polemica, perché per esserci polemica bisogna essere in due».
Cosa non condivide esattamente?
«Mi sono sentito in dovere di tutelare il ruolo della commissione, che molto si identifica con la mia persona, da una vera e propria aggressione mediatica e dalla visione "macchiettistica" data dal giornalista».
Torniamo all' attentato ad Antoci. Nessun dubbio sul fatto che esista un movente chiaro ed indiscusso alla base dell'attentato (la normativa che pone un freno ai milionari finanziamenti alla mafia dei pascoli): come mai la commissione non è giunta ad una unica ipotesi per spiegare l'accaduto?
«Non c'è da parte della commissione alcuna sottovalutazione del movente mafioso: i dubbi semmai restano sulla dinamica dell'attentato. Antoci parla addirittura di "mascariato", questo non c'entra nulla e il suo vittimismo è assolutamente fuori luogo».
Ma secondo lei, Antoci non vive male una mancanza di certezza almeno sul fatto che si tratti di un attentato mafioso? Nel documento una delle ipotesi è addirittura la "simulazione".
«Noi della commissione apprezziamo il lavoro svolto in questi anni da Antoci; se qualcuno ha simulato lo ha fatto ai danni di Antoci, che noi sia chiaro questo, consideriamo vittima sia nel caso dell'attentato sia nel caso della simulazione. Come commissione abbiamo ascoltato il 95% dei personaggi che hanno partecipato direttamente alla vicenda. Il fatto che ci siano più ipotesi in campo è, al contrario, funzionale alla ricerca della verità: una verità che lo stesso Giuseppe Antoci dovrebbe pretendere in prima persona per tutelare se stesso.
Io credo che ancora oggi ci sia su questa vicenda un forte debito di verità».
Cosa ha impedito di scoprirla?
«La mia convinzione è che questa indagine sia stata condotta malissimo, soprattutto all'inizio nei primi due anni: poche indagini e fatte male. Quello che dice il giornalista de "Le Iene" è falso: non sono stati messi in campo tutti gli strumenti investigativi, basti pensare che della vicenda se ne è occupata per un anno e mezzo solo la squadra mobile del posto, né i Ros né la Dia. La Scientifica di Roma è intervenuta, addirittura, due anni dopo, mentre per le indagini fondamentali restano i primi dieci giorni dal fatto che costituisce reato; è una vicenda che, al contrario, avrebbe preteso l'intervento di tutte le strutture investigative a livello nazionale».
Non crede che per Antoci un documento di 100 pagine, redatto dalla commissione, che non arriva ad una inequivocabile presa di posizione sull'attentato, possa creare dubbi riguardo al lavoro della commissione stessa?
«Non credo che Antoci abbia bisogno del riconoscimento del proprio lavoro attraverso la definizione di una sola ipotesi di reato da parte della commissione stessa: ribadisco che la commissione ha sempre apprezzato il lavoro svolto da Antoci. E' lui che dovrebbe pretendere con forza l'accertamento di una verità ancora lontana».
Ha avuto contratti con il Dott.Antoci dopo la conclusione dell' inchiesta?
«No, solo in sede di audizione».
C'è qualcosa che vorrebbe dirgli oggi?
«Mi sarei sicuramente aspettato da lui parole di gratitudine per il lavoro svolto dalla commissione nel suo interesse. Parole di apprezzamento per il suo lavoro sono sempre state pronunciate dai membri della commissione, così come il ribadire costantemente il suo diritto alla verità. Parlare di "mascariato" da parte sua, riguardo alle indagini è veramente grave. Come commissione abbiamo sollecitato ulteriori indagini per far luce sulle modalità dell'attentato, dovrebbe farlo anche lui».
Presidente Fava che cosa non funziona secondo lei nella lotta alla mafia?
«Occorre aggiornare gli strumenti investigativi: la mafia ha trovato nuove forme di investimento, nuove modalità di infiltrazioni, nuove capacità di inquinamento dell'economia. Occorrono nuove norme anche nella gestione dei beni confiscati: non si tratta più di piccoli terreni, uliveti o aranceti, ma parliamo di grosse aziende, di pezzi di mercato, investimenti di alta finanza. Occorre stare ai tempi, così come lo fanno le mafie, che hanno una sempre maggiore capacità di aggiornarsi rispetto alle nuove economie, influenzando così gli esiti economici, finanziari e politici del vivere quotidiano. Tra pochi giorni la commissione concluderà un lungo lavoro portato avanti nell'ambito del ciclo dei rifiuti nuovo ed immenso business per la mafia. Altro aspetto irrisolto è sicuramente quello relativo alla questione morale e la necessità di riportare all'interno della dialettica politica la priorità della lotta alla criminalità organizzata. Ma ricordiamoci che la lotta alla mafia non porta voti».
Claudio Fava "Ministro della Giustizia": quale sarebbe la sua prima riforma?
«Sicuramente quella relativa alla durata dei procedimenti, la certezza della responsabilità dell'indagato in tempi brevi, la riforma del sistema carcerario ormai non più gestibile. Sono d'accordo con una profonda revisione dell'istituto della prescrizione, ma credo che come tutte le riforme in tema di giustizia debba necessariamente essere fatta con un larghissimo consenso di tutti i soggetti interessati».
Ricordiamo, da ultimo, che al dottor Giuseppe Antoci è stata riconosciuta nel 2017 dal Presidente della Repubblica Mattarella, una onorificenza di Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana. Si legge nella motivazione: "Per la sua coraggiosa determinazione nella difesa della legalità e nel contrasto ai fenomeni mafiosi".
Non esiste rinascita per un paese come il nostro se non mettendo come priorità la lotta senza confini alle organizzazioni mafiose. Dal nostro vivere quotidiano di semplici cittadini, alle più alte cariche dello Stato, deve esserci una azione unica per debellare un fenomeno, come quello mafioso, che sta deviando in maniera sempre più pericolosa l'economia, la finanza, la politica, piegando in maniera definitiva la spina dorsale della nazione. Seguiremo ancora la storia di Giuseppe Antoci, sconosciuta a molti perché lui non è stato ammazzato dalla mafia; è riuscito a sopravvivere ad un attentato fatto, ne siamo convinti, da chi è stato danneggiato dal suo protocollo di legalità detto anche " protocollo Antoci". Ora legge dello Stato, che evita alle cosche mafiose di ottenere i fondi europei per finanziare i propri loschi affari.
Per approfondimenti:
https://www.wordnews.it/un-attentato-di-natura-mafiosa
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2020-04-17 12:35:56
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