Il 9 maggio è l’anniversario dell’assassinio di Peppino Impastato, una ricorrenza che quest’anno cade in un momento difficile e tormentato per l’Italia e il mondo alle prese con una gravissima emergenza sanitaria e la lotte alle mafie davanti alle organizzazioni criminali che stanno già cercando di approfittare dell’emergenza.
In questi decenni tantissimi sono stati i ricordi, le commemorazioni, l’abbondante retorica persino su un personaggio scomodo come Peppino Impastato.
Abbiamo intervistato il prof. Umberto Santino, fondatore del Centro Siciliano di Documentazione Peppino Impastato e in questi decenni in prima linea nella lotta per avere giustizia per Peppino e autore di libri, inchieste, articoli e tanti approfondimenti sulle mafie, la loro storia, la borghesia mafiosa e i poteri criminali italiani e internazionali, per riflettere oltre le retoriche e le cerimonie autoreferenziali.
Peppino Impastato, oltre quarant’anni dopo la morte, è una figura di cui alcuni hanno ancora “paura”, mentre molti ne sono affascinati. Lui appariva estraneo, addirittura straniero alla società borghese, moralista e ipocrita che lo circondava. È corretta come lettura?
«Peppino, si legge sulla sua tomba al cimitero di Cinisi, era un «rivoluzionario e militante comunista ucciso dalla mafia democristiana» e la ragione per cui gli abbiamo dedicato il Centro siciliano di documentazione, fondato da me e da mia moglie Anna Puglisi nel 1977, è che è una figura unica nella storia delle lotte contro la mafia, che ho ricostruito nella mia «Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile».
Peppino era figlio di un mafioso e nipote del capomafia Cesare Manzella, uno dei pionieri del traffico internazionale di droga, poi continuato da Gaetano Badalamenti che nel processo alla Pizza Connection fu condannato a 45 anni di carcere. Non era «straniero alla società borghese», era antagonista ad essa, sulla linea del comunismo rivoluzionario, rivisitato dalle organizzazioni nate dal ’68 in poi. La radicalità deriva anche dalla sua biografia. Per Peppino l’attività culturale e politica era il modo per darsi una nuova identità e e la sua lotta cominciava dalla sua famiglia, cioè da se stesso.
La nostra storia si intreccia con la sua dopo la morte, già dall’11 maggio 78, quando su richiesta dei suoi compagni, che mi conoscevano perché avevo gestito l’attività regionale del Manifesto, ho fatto il comizio di chiusura della campagna elettorale, che doveva fare Peppino, e ho indicato i mafiosi di Cinisi e il loro capo Badalamenti come responsabili del delitto. Tutto sarebbe finito lì, ma il 16 maggio la madre e il fratello si sono costituiti parti civili, rinunciando alla vendetta. Comincia così un impegno che vede insieme i familiari, i compagni di militanza di Peppino e noi del Centro di Palermo. Sono stati anni di grande isolamento, poiché magistrati e forze dell’ordine, quasi tutta la stampa, parlavano di Peppino come di un terrorista rimasto vittima dell’attentato che stava preparando o un suicida. Solo dopo più di vent’anni abbiamo ottenuto le sentenze di condanna di Badalamenti e del suo vice Vito Palazzolo e la relazione della Commissione antimafia sul depistaggio delle indagini».
Cosa è rimasto oggi di quella società?
«Di quella società, in cui c’erano anche forti riferimenti internazionali come il Vietnam e Che Guevara con il crollo del socialismo reale, i nuovi equilibri geopolitici, con l’egemonia degli Stati Uniti insidiata dalla Cina e dalla Russia, il «capitalismo senza alternativa», il liberismo come pensiero unico, in Italia l’archiviazione del Partito comunista e della Democrazia cristiana e la fine delle esperienze della Nuova sinistra (rimane qualche gruppo ma senza molto seguito) rimane ben poco.
In questo contesto la mafia siciliana ha perso il ruolo storico di baluardo contro il comunismo, si è arricchita con il traffico di droghe, ha visto conflitti interni sfociati nella guerra di mafia dei primi anni ’80, con la vittoria dei «corleonesi» che hanno imposto un comando dittatoriale, e, per una sorta di delirio di onnipotenza criminale, hanno compiuto delitti con effetto boomerang come l’assassinio di Dalla Chiesa, che ha sollecitato l’approvazione della legge antimafia del settembre 1982 che ha portato al maxiprocesso con pesanti condanne per capi e gregari. Successivamente la mafia è andata alla ricerca di nuovi interlocutori, come Forza Italia, ha compiuto le stragi dei primi anni ’90, su cui si stenta a fare chiarezza sul ruolo dei mandanti esterni, ha condotto un negoziato con lo Stato (la cosiddetta trattativa) ma non ha ottenuto gran parte delle cose che chiedeva: l’abolizione della legge antimafia, del 41bis, delle confische e a mio avviso attraversa un periodo di crisi. Crisi organizzativa, perche capi e gregari sono quasi tutti in carcere, fine del ruolo egemonico nel traffico di droga, crisi della spesa pubblica e minori possibilità di appalti.
Sul piano dei rapporti tra mafia e politica l’evento più eclatante è stato il processo ad Andreotti, conclusosi con un verdetto contraddittorio: accertata l’associazione a delinquere semplice fino al 1980 (allora non c’era la legge antimafia) ma il reato è prescritto, assolto per gli anni successivi.
È cresciuto il ruolo della ‘ndrangheta, la camorra continua la sua attività, si è imposta la mafia pugliese soprattutto nel foggiano, si sonno create le piccole mafie, ma Mafia capitale non è stata riconosciuta come associazione mafiosa, si è diffusa la presenza di gruppi criminali, anche stranieri, in tutto il territorio nazionale».
Quale senso avrebbe oggi portare avanti una lotta sociale e politica contro questa società?Al di là della retorica delle cerimonie e da social oggi come si può autenticamente ricordare l’impegno di Peppino e Radio Aut?
«In questo quadro, in mancanza di riferimenti politici affidabili (nessuna delle forze politiche ha in agenda come compito principale la lotta alla mafia), con nessun legame reale, al di là di solidarietà più o meno precarie, con soggetti istituzionali impegnati nel contrasto alle mafie come la Commissione antimafia, i magistrati e le forze dell’ordine, è molto difficile muoversi. Come società civile organizzata possiamo analizzare la società contemporanea, con attività di documentazione, studio e ricerca, con qualche collegamento con istituti universitari, e cercare di costruire esperienze significative, come il lavoro nelle scuole, l’antiracket, l’uso sociale dei beni confiscati.
Per quanto riguarda Peppino, l’icona vincente è quella de «I cento passi», dell’apologo sulla bellezza, in piena contraddizione con il Peppino reale che univa l’ambientalismo con la lotta di classe.
Noi, cioè i familiari, i compagni rimasti, il Centro a lui intitolato, abbiamo vinto sul piano del salvataggio della memoria e della giustizia, ottenendo le condanne di Badalamenti e del suo vice Vito Palazzolo e la relazione della Commissione antimafia sul depistaggio; abbiamo perso sul piano mediatico, poiché non c’era partita: le nostre pubblicazioni raggiungono migliaia di persone, il film ha avuto un grande successo, è stato visto e rivisto da milioni di persone e lo sceneggiato televisivo su Felicia in cui lei, che usciva rarissimamente, è sempre per strada a gridare contro Badalamenti e io faccio cose che non ho mai fatto e non faccio le cose che ho fatto, ha avuto 7 milioni di spettatori. Cerchiamo di ricordare il Peppino storico e non quello mediatico, ma è difficile confrontarsi con l’icona ormai sedimentata. Quasi tutti quello che vanno a Cinisi fanno il percorso da Casa Memoria a casa Badalamenti come se fosse la via crucis. A ricordare Peppino per quello che era penso che siamo rimasti in pochi».
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2020-05-09 19:12:37
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