Ho dinanzi, mentre scrivo, uno splendido volume monografico incentrato sull’opera monumentale di Umberto Mastroianni. E’ un libro raro pubblicato più di quarant’anni fa e raccoglie, oltre ad un rigoroso testo di Jackes Lassaigne, allora sopraintendente del Museo d’Arte Moderna di Parigi, uno straordinario servizio fotografico che Ruberto Ruberti e Francesco Aschieri dedicarono ad Umberto Mastroianni e alle sue sculture monumentali. Un percorso temporale e minuzioso che prendendo il via dalla “grande opera collocata da Umberto Mastroianni sul ciglio del vasto e solco in cui, a Cuneo, scorre l’acqua del Gesso” procede per approdi altrettanto significativi e a noi più familiari – come quelli di Frosinone e Cassino – ma per i quali, di certo, non possiamo avanzare la stessa intensità descrittiva suggerita dal virgolettato di Marziano Bernardi. Ma procediamo con ordine.
C’è, in questo testo, un’immagine fotografica che più di altre suggerisce una “sostanza” che merita approfondimenti meno distratti e che probabilmente ci incalza su una lettura più scrupolosa – e forse malinconica – del rapporto che questo grande maestro dell’arte contemporanea ha vissuto, fino alla fine dei suoi giorni, con la sua terra. E’ una foto di Mastroianni dinanzi ad uno dei primi “prototipi” di quello che, negli anni successivi, sarebbe stato, nella sua “dirompente espressività”, il Monumento alla Pace di Cassino. In primo piano, seppur defilato rispetto alla sua opera, quasi illuminato da un bagliore segreto, lo sguardo di un Mastroianni fiero – di quella “fierezza” per nulla contaminata che per secoli è stata forse il segno distintivo di questa straordinaria famiglia di artisti – fissa la camera affinché il fotografo non distragga la sua magia retinica da quella “arterie” di legno, cartone e ferro che invadono per intero il campo visivo. A guardarla di getto quell’immagine pare addirittura appropriarsi dello scultore, farne frammento occasionale dell’intera costruzione. Forse quello che lui avrebbe desiderato di più. Ma quello scatto ci riporta al prologo di una storia meno benevola, forse perfino beffarda. Fissa innanzitutto la temporalità di un’idea. Mastroianni “lavorava” al monumento di Cassino da tempo immemorabile perché forte, ossessiva, persecutoria quasi, fu la sua “partecipazione” al dramma di quella città. Da qui la necessità corrosiva di rappresentare la guerra – e di quella guerra uno degli eventi più mortificanti e oltraggiosi per la ragione umana – con un’opera a lungo meditata, più volte modellata o riscritta sul copione inesauribile del dolore. Se il monumento di Cuneo riafferrava forse i contenuti di una temporalità fatta di passioni e di partecipazione attiva per il compimento di un intero e progressivo “progetto sociale”, l’opera di Cassino disegnava il tempo e il luogo sacro del ripensamento, l’avvilimento della coscienza, l’ingannevole racconto di una inopinabile barbarie.
Credo allora – e lo credono in molti – che il monumento di Cassino sia stato per Umberto Mastroianni – più di altri – una sorta di figlio amato, scomparso e riapparso più volte agli occhi del padre. Un figlio curato fin dalla nascita affinché assolvesse a un compito per nulla marginale o semplicemente descrittivo. Voleva che questa opera – meditata e riscritta negli anni – divenisse, nella sua “frizione dinamica”, il segno distintivo di un popolo e di un luogo come lo furono altri segni – o altre opere – per Hiroshima, Guernica, Berlino. E ne aveva pertanto idealizzato il futuro, ne aveva immaginato l’alveo e le traiettorie visive affinché quelle enormi “bocche” di acciaio ripristinassero con gli uomini un rapporto non soltanto retinico ma colmo di accenti della memoria, di dolore smisurato, di un gridare mai sopito. Nacque allora ai margini di questa straordinaria scultura, quello che potremmo definire un progetto nel progetto, ovvero un percorso parallelo in cui la “deposizione” dell’opera avrebbe dovuto assumere valenze di enorme significato: artistico, storico, architettonico e naturalmente ambientale. Quell’opera avrebbe oltremodo rappresentato il vero segnale di rinascita di un territorio fino ad oggi mortificato dai gongolanti e annoiati ritornelli sul martirio passato. Attorno ad essa, alla sua struggente contemporaneità e al suo originario progetto di sistemazione, la città di Cassino – oggi ne siamo ancora più convinti – avrebbe davvero inaugurato una nuova stagione della propria esistenza.
Il progetto di sistemazione architettonica del monumento, affidato originariamente a Maurizio Sacripanti, avrebbe di certo rappresentato un inedito e spettacolare “alloggio” architettonico capace di ridefinire gli equilibri spaziali e visivi dell’intera area prescelta – a ridosso dell’antica abbazia benedettina – e attribuito a quell’intervento il segno di una continuità millenaria qualificata esclusivamente dall’inesauribile volano dell’espressività umana. Le cose andarono diversamente. Forse perché qualcuno temeva nel sacro recinto contaminazioni “troppo” contemporanee? Forse perché gli amministratori di allora (come quelli di oggi) avevano da curare progetti meno “ingombranti”? Forse perché era meglio rimuovere che ripristinare drasticamente la memoria? Forse. Ma all’origine di ogni fallimento c’è, probabilmente, l’incapacità atavica di non voler capire, di ignorare le prospettive, di affrancarsi da ogni responsabilità recitando esclusivamente ruoli da comparse.
E di questo materiale – soprattutto umano – ne è piena la storia di questo territorio. La rinuncia a quell’originario progetto auspicato e fortemente voluto da Umberto Mastroianni e dai suoi più stretti collaboratori, ci consegnò l’ennesimo capitolo di una storia infinita che ha visto – e vede tuttora – protagonista quel malinconico senso di disaffezione, scetticismo e ignoranza che ha come unico collante la capacità di rifiutare e sotterrare ogni “appello” proveniente da un universo distante, diverso, sconosciuto a molti: il mondo dell’arte, quello della cultura. A Massimo Struffi, allora a capo dell’amministrazione provinciale di Frosinone e successivamente Presidente della Fondazione Umberto Mastroianni, lo scultore di Fontana Liri manifesta lo smarrimento e l’inconfessabile tristezza per il devastante disinteresse – se non addirittura l’ostruzionismo ottuso – degli amministratori locali nei confronti di quell’opera e della sua preordinata collocazione. “Caro Massimo – scrive Mastroianni – da artista come tu sei ti prego di tollerare la mia ansietà e quindi questi miei scritti. Attraverso, come tu sai, un momento delicato aggravato dal problema Cassino. In verità non vedo soluzione di successo per tanto impegno da parte nostra. Avrei sperato in una soluzione possibile ma oggi sono sinceramente preoccupato. L’emozione che stiamo suscitando in giro ci rende vulnerabili e poco credibili. Dopo lo sforzo subìto in molti anni per questa opera il risultato è assolutamente negativo. Cosa possiamo fare? Lo domando all’amico più giovane, più preparato, agguerrito che mi ha dato prove di comprensione e solidarietà senza fine. Massimo, dobbiamo uscire a tutti i costi da questo incubo. E’ l’ultima battaglia che la mia età mi costringe a combattere. Ti abbraccio”.
Passerà del tempo per riannodare i rapporti, per ridefinire gli spazi e le competenze, e quando l’incarico di un nuovo progetto di sistemazione del Monumento alla Pace di Cassino – e di una più coordinata sistemazione dell’intero patrimonio monumentale mastroianneo in Ciociaria – viene affidato agli architetti Iannazzi, Galletta, Gandolfo e Piero Buti, l’avventura sembra riprendere forza ed entusiasmo. Il “Monumento alla Pace” sarà una sorta di faro ineguagliabile posto sulla collina di Rocca Janula. “In tutto il territorio cassinate la superficie della collina è l’unica zona che ancora testimonia, dopo la ricostruzione totale dell’abbazia e della città, le ferite della guerra… i poli simbolici saranno i manufatti militari storici, la Rocca, le fortificazioni (segni che precedono l’evento bellico) e le macerie delle abitazioni civili ( gli effetti sconvolgenti della guerra).
Tra essi l’esplosione di Mastroianni rappresenta il momento fondamentale del verificarsi dell’evento. La scultura, pertanto, diventa nei suoi modi specifici di comunicazione, l’elemento di riunificazione dello spazio in cui si colloca”. Così immaginano la nuova collocazione i curatori dell’evento. Ma c’è di più: un intero progetto di riqualificazione territoriale che farà di quella “collina” un luogo di riflessione storica, culturale, architettonica e naturale. “Tutta la collina è destinata a parco urbano” scrivono gli architetti incaricati. E scrivono ancora di “livellamenti, percorsi, parcheggi”: un luogo “edificato” attorno a quella straordinaria macchina monumentale e da questa presenza alimentato, vissuto, praticato. Era in fondo l’antico desiderio del grande maestro. Quello di fare della scultura un momento incalzante di comunicazione e contaminazione, di progettualità e suggerimenti. Un momento ininterrotto di riflessione. Il progetto, nella sua antica definizione – grafici, testi, planimetrie, lucidi – trova riparo in una rigorosa pubblicazione dell’allora amministrazione provinciale di Frosinone. Si programmano i fondi e i tempi, si dispongono i cantieri, si predispone la collocazione dell’opera. Tutto quello, insomma, che una buona amministrazione cittadina, amministrata da buoni amministratori cittadini, avrebbe dovuto realizzare. Ma di questo materiale – soprattutto umano – non ne è piena la storia di questa terra.
Il “Monumento alla Pace” di Cassino, abbandonato da anni tra gli sterpi di quella “collina” è un altro bieco compromesso (tra dovere sociale e insensibilità endemica) voluto da generazioni di amministratori – di una città “anniversariamente martire” – incapaci di leggere la propria storia, quella remota e quella presente. Assolutamente inadatti a restituire a questa città – davvero alla memoria degli innocenti! – un ruolo e uno spazio che soltanto alcuni simboli, in primis quelli prodotti dall’arte e dalla cultura, possono riaffermare. Ho visto con i miei occhi uomini provenienti da ogni paese arrampicarsi lungo i sentieri invisibili di quella “collina”; faticare nel percorso offeso dai resti notturni di amori rubati, di sassaie disordinate, di avanzi inquinanti, di liane spinose, di varchi inaccessibili. Tutto ciò per fare sosta – in silenzio – dinanzi ad una delle opere più struggenti dell’espressività contemporanea. Ma restano in molti – troppi – in questa città, ad ignorarne finanche la storia. (Immagine fotografica di Giacomo Cestra)
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2020-05-22 16:46:45
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