Venti anni dopo. Di quel tempo trascorso la memoria si fa compagna grama eppure efficace per riafferrare bagliori, sguardi, finanche profumi. Venti anni dopo ritorno nello studio di Giovanni Filocamo – aggrappato su un poggio della città vecchia, crocevia e intrico di stradine collinari – e ritrovo la luce di allora, le pile di tele brunite, gli oggetti raccolti e archiviati come “vigilie” di nuovi intendimenti; le cornici sfrenatamente barocche che riscrivono i contorni di un volto, di un albero, di un’allegoria; o gli scrigni di legno in cui lui depone, quasi sarcasticamente, frammenti di corpi in cartapesta.
E’ innanzitutto un racconto di memorie quello di Filocamo. Una cronaca di indizi che riaffiorano – inesauribili – dal suo tempo, dalla sua terra, dal suo essere uomo del sud, al di là degli stereotipi che potrebbero aggredire o sanzionare questa condizione.
E’ in questa “matrice territoriale” – che ha offerto alla pittura novecentesca italiana figure di rara intensità – che si è mossa e si muove tutta la dinamica narrativa di Filocamo pittore. Lui reggino che attraversa le Eolie e riscopre le terre della deserta Pentedattilo; luoghi di frontiera e di sbarchi, terra di filastrocche primitive, di lampi, di cammini, di parole e corpi che sanno di sale e pietra, di sconfinamenti e di ascolto.
Questo incontro rifugge l’ordinarietà di un calcolo temporale, mette alla porta un “accertamento” meticoloso dell’incedere e raccoglie minuti frammenti narrativi come se la laboriosità dell’intero racconto si mitigasse in piccole finestre, in sguardi sfogliati, in ormeggi lievi. E non c’è calcolo che tenga, non c’è misura del dialogo, piuttosto mistura di corpi e luoghi, di ore ed anni, di frescure e penombre. E scorrono allora – in un irrituale corteo processionale – le storie raccolte, gli umori, finanche gli indugi.
E non è un caso che le allegorie amorose si fondano, in una sorta di intesa bifronte, con i “territori” ludici della propria esistenza. Ma cosa è più sensuale? I corpi sommessamente denudati e posti come icone immaginifiche o l’opportunità di animare luoghi improbabili di minuti e affollati richiami?
Direi che la pittura di Giovanni Filocamo è uno “sgambetto” retinico in cui lo svelamento quasi rigoroso del racconto – con colori e segni tersi – pare arenarci dinanzi alla sua tangibile compiutezza. In verità ogni costruzione è un avvicendamento altro da cui ripartire, sostare, riandare ancora. E’ un sovrapporsi di memorie, storiche e confidenziali, un viaggio infinito nel proprio sentire rimestato in presenze collettive.
E allora finanche il “liturgico” è occasione di rimpatri personali e di ritocchi simbolici; perfino i luoghi – smascherati dal colore – sono agore di dolci pentimenti, di riverberi onirici, di gioco.
“I miei dipinti sono a volte popolati“ scrive Filocamo “da inconsueti motivi decorativi, come stendardi, cornici finemente intagliate e cartigli barocchi… nella simbologia araldica, cosiddetta parlante, esistono delle figure fantastiche e sorprendenti… Si tratta di figure che hanno un forte spirito ironico o addirittura uno sfacciato senso scherzoso”. Come a recuperare – di continuo – sulla tela un bagaglio bambinesco fatto di accenti, di crocicchi, di aromi, e a dare ad esso – ma lo si vuole davvero? – una percezione narrativa che ristabilisca il senso del tempo, e in questo, della propria presenza. Piace archiviare la memoria a Giovanni Filocamo. E di questa l’anima inconsueta, quella dileguata, quella che non sopravvive al consuntivo ordinario e che pare sciogliersi ad ogni nuovo divenire.
Lui l’afferra, per segni e litanie, repertandola all’interno di altre memorie, più tangibili o rassicuranti – gli scrigni, le finestre, le “cornici finemente intagliate” – per farne testimonianza dell’improbabile, del sogno, del gioco. Direi di Filocamo che è un testimone non ancora abbrutito, insolente, vivo.
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2021-06-05 11:23:24
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