Innanzitutto il luogo. Castro dei Volsci, ovvero microcosmo fortificato dell’antica stirpe dei Volsci, popolo italico e al contempo lunare. Per quel “disegno” astrale e astratto che ne ha sbiadito la memoria fino ad estinguerne gli indizi e ad offrire ipotesi, congetture, transiti di riconoscimenti poco ragionevoli.
Come se tutto fosse stato in verità sommerso, risucchiato, assorbito da presenze meno evanescenti e poi centellinato agli occhi e all’ascolto come suggestione, frammento verosimile, teoria. Sappiamo soltanto della loro esistenza, poco della loro azione, degli incroci, del divenire comune, delle alleanze, degli alibi e di un altrove che li ha visti eclissarsi.
Eppure, qui, sulla rupe, tutto appare compenso remoto: di sangue e aliti, dell’odio come vettore, della fatica smisurata, dei dialoghi tra nenie e gesti assicurati al vento o all’artificio della notte. Rocambolesco e salutare risalire l’anello che accerchia i giganti di pietra disposti senza fiato, quasi ad offrire (ad ogni profilo) una sorta di “gemello parassita”.
Che ne fa difesa, sostegno, finanche confronto. Per assillo di forza, di spinta, di energie che non immaginiamo. Ecco la fortezza dei Volsci, quasi un tessuto o piuttosto un ricamo di intenti. Il vento rimpallava senza benevola sorte, al pari dei nemici, probabilmente. Una città (lo era davvero) “fortificata” o, per sottili intrusioni etimologiche, una città “fortunata”.
La mia, di fortuna, è quella di salire al borgo in compagnia di Cufrini (che si è come dato nuova identità rinunciando al nome remoto), artista “poliedrico”, come lui stesso si definisce nell’accurata biografia che è inventario di “bivacchi, appuntamenti, testimonianze”. Qui è di casa, come se questo luogo fosse una scatola di reciproche attenzioni. Il percorso lo decide lui, in una sorta di itinerario a ritroso (in verità così vorremmo che fosse questa cronaca): dal punto più alto – dove le costellazioni, di notte sembrano dare luce e riparo agli uomini di buona volontà disseminati in un tavoliere che si perde allo sguardo – per ridiscendere, su minuscole stradine, fino al portale di accesso. Nel mezzo preziose agore di sosta, cespi di parietaria e petali ignoti sulle cortecce di intonaco e tigli anziani che sparigliano il sole.
Poi, all’improvviso, il ritratto.
A ben guardare la campitura si muove sulla direttrice muraria allargandosi come naturale trapezio per forme e slanci, per un adattamento naturale affinché la pietra faccia da deduzione e da conforto.
L’immagine appare diluita allo sguardo offerto a breve distanza per ridisegnarsi poi in un “luminamento” dettato dal distacco. Il ritratto che Cufrini ha “concesso” alla Terra dei Volsci è di certo un frammento iconografico ma al contempo indizio di correlazioni altre: Nino Manfredi (in verità, Saturnino, e qui ci sarebbe materia per imbastire ipotesi e arcani segnali capaci di restituirci, come direbbe Marcello Carlino “un residuale bisogno di ancoraggio”) attore, regista, sceneggiatore, maschera, chansonnier, ma soprattutto interprete – com’è nella privilegiata e luciferina veste del guitto – di una socialità allargata che è illimite per storia e per declinazione del tempo.
Allora mi piace immaginarlo personificazione e timbro di una mitologica appartenenza, di un Dna riconoscibile, di un attraversamento a cui ridare voce perfino narrante. Forse – ribadisco forse – Cufrini amalgama questi indicatori per farne una sorta di “tavola periodica” a cui restituire (per segni apparentemente inverosimili) l'âme
ovvero il respiro. Quello che non conosce richiami o mittenti, meno che mai virtuosi destinatari; quello che è polvere affidata alle nuvole di biacca o all’onda che non si doma.
Eccolo il viso che si abbuia (e fatalmente rischiara) sul piano. Sono le traiettorie dell’occhio – quella mistura di irragionevoli “messe a fuoco” – a creare le trasparenze e la scintillanza. E, come in un susseguirsi di rilievi e ombre, l’immagine fa chiaro il volto, lo svela in ogni tremitanza, ne pesa quasi le fattezze. Per liberarle, ancora, quando la luce ricolma lo spazio e non offre più riferimenti: di tempo, di forma, di indizio.
Ecco, questa opera di Cufrini, che risana oltremodo la pietraia levigata, mi appare all’improvviso come una enorme meridiana i cui segnali orari – e secolari – dettano il ticchettio e lo stordimento, risalendo – o inabissando di volta in volta – la bocca, il naso, l’occhio sbalordito, la chioma guerriera. L’icona – riconoscibile e riconosciuta – si fa dunque rassicurante presenza, luogo nel luogo capace di “inglobare in noi stessi” come ebbe a scrivere Giuseppe Bonaviri nei suoi Itinerari Ciociari “l’erba ascepla, l’elleboro, la fuggitiva lucertola, i nidi dispersi nelle macchie, le pietre rosse, il respiro degli uomini che sanno pensare a tutte le cose, che, effimere ombre, subito passano”.
Non è un caso che il “ritratto” di Cufrini sia un vero e proprio resoconto narrativo affidato non esclusivamente al segno, che redime ed evidenzia, che propone e ribadisce. Lui, l’artista, tra una indefinita ressa di lettere sceglie le vocali e le consonanti che si fanno, d’improvviso, segno – e tono – marcato, talvolta sbiadito per restituire all’opera una conformità che non è più – non è soltanto – predominanza identitaria, piuttosto teoria di umori, di aliti, di manomissioni, di profonda emozionalità. La “scrittura grafica” di Cufrini aiuta pertanto ad una decodificazione dell’immagine assai più articolata e complessa perché attribuisce ad essa – all’immagina – quella che mi piace suggerire come temperatura grammaticale ovvero una gradazione di ombre e bagliori che sono storia remota, liturgia del dire e dell’ascolto, riflessione.
Il “ritratto” – a questo punto declinerei al plurale la varietà di presenze analoghe – è una perscrutabile stazione di sosta; ovvero l’esito di molteplici riassunti: territoriali, storici, espressivi. Minuscoli “distretti” di percezione dislocati come essenze (e sostanze) di un disegno più ampio.
Quello che Cufrini intende e avvalora quale ricerca di una idea iconografica capace, più dell’immagina stessa, di produrre una sorta di tensione evolutiva che sia testimonianza, presenza lirica, teorema di un inedito divenire. Mi piace, a tal proposito, ribadire il prezioso contributo fornito da Loredana Rea nel 2014 in occasione della mostra Presenti/Assenti” : “… sono ritratti minimali, eseguiti con raffinati assemblaggi di lettere dell’alfabeto, con studiate erosioni della superficie metallica o, ancora impressi sulla carta seguendo le potenzialità di una ripetitività seriale, che suggeriscono la possibilità di tornare a disegnare il loro posto nella società, strappando alla flebile persistenza del passato, ciò che è stato e ora non è più …”.
Il ritratto (o ancora, i ritratti) appare dunque una postazione di indizi e di intenti o, più verosimilmente, il carattere di un sentire che accoglie in sé la timbrica coscienza di un luogo – delle sue genti, della memoria, delle nefandezze, dei riti, dell’immaginario – fino a farne piccole ma insostituibili “corporeità di riflessi”. Il ritratto di Nino Manfredi (in verità, Saturnino) è l’epilogo occasionale – non ancora risolutivamente completo – di un percorso recente, ultimo e più meditato approdo di un dire che ha nel prologo ben altre premonizioni.
Il “ritratto” si fa nel frattempo, catena testimoniale: lo è quello di Marcello Mastroianni nella sua terra di creste e crateri; lo è quello di Fabrizio De André in una Genova orfana e sperduta; lo sono quelli che restituiranno alla terra di Sicilia gli sguardi – e perché no? – le voci di un Novecento che non ha modo di (non può) abdicare senza ripensamento; lo sono quelli di PPP, di Salvador Dalì, di Andy Warhol, di Frida, di Pablo Picasso, disseminati come trame.
A ritroso l’altrove è un luogo di sortilegi durevoli. Lo studio di Cufrini si inabissa tra viottoli celati. Potremmo raggiungerlo con una bussola che ne segnali la rotta o sedotti dall’effluvio dell’imprimitura; delle colle e degli acidi che “marcano” risme di zinco.
E’ qui, in questo luogo di filastrocche che è possibile, forse, tentare un approccio con la “fabbricazione” della storia. La sua, naturalmente. Sfogliando, più o meno distrattamente, i capitoli all’incontrario, fino a recuperare, come in un diario, la scrittura docile del debutto; quella che si sottrae a revisioni di sorta, che pronuncia segni calligrafici decisamente perfetti.
Eppure la “calligrafia” del pittor giovane – le tracce riemerse tra oggetti, prototipi, ipotesi – prefigurava il senso di un poco “rassicurante” incedere. Se per rasserenante vogliamo intendere una prospettiva fatta di orientamenti e domicili preannunciati. In verità Cufrini affronta le “stagioni” del suo tempo artistico rivoltandone i convenevoli ovvero ripudiandone quasi lo schema di sviluppo. Come se “avanzasse” per fughe, indugi repentini, ricapitolazioni, distacchi. Come se la materia si dipanasse in un incessante inseguimento per arretrare – altrettanto rapidamente – lasciando sul “campo di battaglia” resti, simboli,avanzi, ferite. Ed è tutto ciò che poi entra, protagonista, nei contenuti (e nel profilo) narrativi del nostro artista.
Non soltanto metaforicamente bensì con il “consumo” effettivo di quelle opportunità. Restituendo l’anima – il rifiato – ad ogni ritrovamento; affidando ad esso una inedita significanza che è assortimento di memorie, di echi, di transiti. Dalle “azioni cromatiche” dell’esordio ai “dispositivi immaginifici” del tempo di mezzo; dalla scrittura intenzionale come avviamento narrativo fino alla sua applicazione filologica, avvenente e grafica nella successione dei recenti ritratti.
Cufrini smuove i segni dell'alfabeto. Al pari dell’indovino che per uffici incantati e venerati vive il beneficio del presagio. Perché si compia l' artificio.
Luglio 2021
(testo catalogo mostra)
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2021-07-28 12:30:56
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